Politica - All'assemblea costitutiva di Articolo Uno

D'Alema toglie l'ultima illusione che si possa ritornate al Partito

CARPI – Si fa presto a dire chi c’era e chi non c’era, lunedì sera alla sala conferenze di viale Peruzzi per l’assemblea costitutiva del Movimento Articolo 1 dell’Unione Terre d’Argine, tenuta a battesimo dall’autorevole presenza di un Massimo D’Alema in gran forma: c’erano tanti sessanta-settantenni, sulla soglia di un non facile pensionamento, orfani di un Partito (quello con la P maiuscola che, per stessa ammissione di D’Alema, non c’è più), un manipolo di giovani, parecchi ex SEL, qualche democristiano incuriosito dalla inusuale presenza a Carpi dell’ex leader massimo del partito antagonista per antonomasia. Non c’erano i renziani Pd dell’ultima ora (per esempio il consigliere regionale Enrico Campedelli) ma nemmeno i “capelli bianchi” dello zoccolo duro del vecchio Pci, né quelli che si sono defilati da tempo dalla scena politica dopo esserne stati protagonisti per almeno cinquant’anni, i delusi, gli sfiduciati. La pattuglia istituzionale, intervenuta in nome del Pd in carica (più che altro per far vedere che non c’è rancore per una separazione annunciata da tempo e per mantenere almeno formalmente rapporti amichevoli con i separati in casa) era capeggiata dal sindaco Alberto Bellelli, da Simone Tosi, dal segretario Pd Marco Reggiani e da Ermanno Losi. Pacati i toni della polemica, che c’è e nessuno lo può negare, fra il nuovo movimento e il Pd di Renzi: riforma costituzionale sbagliata e bocciata dagli elettori, riforma elettorale pasticciata e bocciata dalla Corte Costituzionale, riforma del lavoro e della scuola silurata dai sindacati, dai lavoratori e dagli operatori. D’Alema interviene alla fine, dopo Lucio Ferrari (neo segretario in pectore dei Art.1 a Carpi), la senatrice Cecilia Guerra e un paio di interventi del pubblico (potevano mancare quello di Luigi Anceschi o quello di un sindacalista d’annata come Agostino Rota?). Lucio Ferrari esordisce con una ammissione che lo accomuna a tanti fra i presenti in sala: «Ho militato per 46 anni in formazioni politiche di sinistra – confessa – assumendo anche incarichi politici di responsabilità. Quest’anno, per la prima volta, non ho rinnovato la mia iscrizione al Pd». Poi tocca a lui, a D’Alema, reclamato a gran voce dalla platea. Cita Guicciardini, D’Alema, e poi ancora il biblico Ecclesiaste, addirittura don Milani, prima di arrivare ad un più consono con l’ambiente Antonio Gramsci. Spiega le ragioni di una separazione che, a suo dire si basa su una visione diversa del modo di fare politica di “sinistra”; si dilunga sulla necessità di dare vita a una formazione politica che torni a fare di questa “sinistra” una componente viva della politica nazionale contrastando la politica sempre più centrista di un Pd, quella di Matteo Renzi, che ha sposato molte tesi del berlusconismo “tradendo” le aspettative dell’eletorato “di sinistra” che oggi, per oltre il 25 per cento, ha scelto di passare ai 5 Stelle. La platea non s’infiamma nonostante qualche fremito di consenso e qualche faccia storta fra la delegazione renziana (ma sarebbe più precisa definirla “orlandiana”) schierata in prima fila. «Alcuni vecchi compagni – sentenzia poi D’Alema – per disciplina stalinista inveterata, hanno seguito il leader attuale nella convinzione che il Segretario è comunque infallibile e che il Partito non può sbagliare. Ma Il Pci  è stato l’ultimo partito con la P maiuscola; quel Partito non c’è più». Detto da chi è stato segretario del Pds e protagonista di una lunga stagione politica che lo ha visto anche capo del Governo, queste parole suonano come macigni in una sala che ormai è sì rovente, ma solo perché sovraffollata di spettatori.

f.s.

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