Il bilancio dei 13 anni seguiti all’approvazione del Piano regolatore

Carpi, la ricchezza pietrificata

Sul mattone una valanga di risorse. Sottratte ai principali settori produttivi e indirizzate alla rendita. Si spiega così il ridimensionamento “indolore” del tessile abbigliamento. Come il pesante impatto fisico sul territorio e il collasso dell’immobilia

Carpi – Lo stesso giorno d’uscita di questo numero di Voce, il Consiglio comunale di Carpi discute la convenzione fra i Comuni di Novi, Soliera e l’Unione Terre d’Argine per dar vita a un Ufficio di Piano che dovrebbe coordinare e approvare i rispettivi strumenti di pianificazione urbanistica. In altri termini, uniformare i Piani regolatori. E’ il primo atto in direzione di quella visione più ampia del governo del territorio fisico da sempre auspicata, quanto meno per evitare che la zona industriale di un comune venga a trovarsi accanto a vigneti e frutteti del comune confinante. E per integrare le rispettive viabilità, i parchi naturali, le piste ciclabili, le zone produttive, le aree di pregio agricolo o paesaggistico, fino alle strutture sportive. 

Questa scadenza amministrativa che potrebbe dischiudere a un futuro diverso nella gestione del territorio rende attuale l’analisi degli errori e dei problemi ereditati dal passato compiuta dall’autore dell’inchiesta sotto riportata e riassunta per la recente serata “Ecco Carpi se…” del Lions Club Carpi Host. Quel “se” esprimeva un giudizio negativo su quanto avvenuto, insieme alla speranza che si faccia tesoro degli errori commessi per un assetto più equilibrato della città e del territorio.

 

di Florio Magnanini

 

Si dovrebbe partire dalla moda, per parlare dello sviluppo urbanistico di Carpi nei 13 anni seguiti all’approvazione del nuovo Piano regolatore. O meglio, dal settore tessile e dell’abbigliamento, cioè da maglieria e confezioni, come si diceva una volta. 

Qualche numero. Nel 1990 le imprese di questo che continua a rappresentare il maggior comparto produttivo di Carpi erano 2 mila 250. Nel 2014 sono diventate 879. Stesso trend, ancora più sensibile, nel numero degli addetti: 13 mila 509 nel 1990, scesi a 6 mila 140 nel 2014. Quando, nei giorni della promozione in serie A del Carpi, ci venivano chieste da colleghi di testate giornalistiche nazionali informazioni su questo settore dal quale proviene il patron della squadra (ma anche quello del Verona) si provava a spiegare proprio con quelle cifre la trasformazione avvenuta nel comparto, la sua verticalizzazione e la scomparsa della città fabbrica. La domanda era invariabilmente la stessa: ma con una simile mole di chiusure e di riduzioni di posti di lavoro, non ci sono stati lotte, scontri, presidi? Insomma, niente conflitto sociale? 

No, si rispondeva: perché gli espulsi o gli autoespulsi dalla produzione non erano masse proletarie diseredate, ma per lo più piccoli, piccolissimi imprenditori, artigiani, operatori commerciali eredi di annate ben più favorevoli che gli ammortizzatori sociali e la pensione se li sono costruiti da sé, senza attendere l’Inps. Costruiti è il verbo giusto, perché quell’ammortizzatore sociale è stata la pietra.

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Affitti, compravendite sul mercato immobiliare, con le banche a sostegno: sulle costruzioni, soprattutto negli anni successivi all’approvazione del Prg, si è riversata una massiccia mole di investimenti quale non si registrava, forse, dal decennio 1955/1965, quello dell’inurbamento di massa. Anche qui ci soccorrono i numeri. Tra il 2002 e il 2015 il Consiglio comunale ha deliberato non meno di una sessantina di atti relativi a piani particolareggiati. Togliamo pure quelli riferiti ad ampliamenti di aziende (Italcarni, Angelo Po, Acetifici de Nigris…). Togliamo qualche variante a piani già approvati. Alla fine non sono meno di una quarantina i “pezzi di città” aggiunti a quella costruita: per citare solo i più evidenti, la ex Pioppa, la ex Silan, via Aldo Moro, via Sigonio, via Cuneo, via Roosevelt, tutto il nuovo comparto di Cibeno, tra via Ramazzini e via Bonasi, lungo Canalvecchio, via Morbidina, via Sigonio, via Due Ponti e da ultimo via Pola. E poi le frazion, investite da un’autentica furia edificatoria. Per farla breve: dal 2000 al 2010 a Carpi, solo per la residenza, sono stati costruiti 1 milione 900 mila metri cubi (il picco è stato nel 2006, con 303 mila metri cubi), contro gli 800 mila del decennio 1990/1999. Ed è stato necessario realizzare 50 chilometri di strade in più. 

Gli effetti fisici sono sotto gli occhi di tutti. La continua erosione del territorio con le edificazioni ha originato una città sterminata e dalle distanze sproporzionate rispetto a una densità di popolazione che non arriva ai 600 abitanti per chilometro quadrato. La sua manutenzione sta diventando impossibile e dai costi insopportabili, mentre l’espansione periferica, senza gerarchie e senza centri, rende problematico perfino individuare punti strategici nei quali collocare efficacemente le fermate dei bus. Le frazioni sono state trasfigurate: con Fossoli pressoché congiunta a Carpi; con Budrione, Migliarina, Gargallo, Santa Croce snaturate al punto da ritrovarsi con due centri, i nuovi quartieri e quello storico.

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Non meno gravi sono state le ricadute sul mercato. Divorare subito tutte le potenzialità edificatorie autorizzate dal nuovo Prg per assecondare la fregola cementizia, ha fatto sì che verso la metà del decennio in esame, anche in concomitanza con l’esplosione della bolla immobiliare, l’offerta superasse la domanda, producendo il ben noto fenomeno prima degli alloggi sfitti e invenduti, e poi il tracollo di imprese impegnate in piani particolareggiati che non sono riuscite a portare a termine. Casi come via Morbidina o via Sigonio o via Canalvecchio con piste ciclabili e aree di sosta invase dalle erbacce e opere di urbanizzazione lasciate a metà si sono ripetuti di frequente, fra le proteste dei primi acquirenti cui erano stati promessi paradisi residenziali e che hanno finito per trovarsi in mezzo a cantieri abbandonati. Il calo dei prezzi era inevitabile, soprattutto sul costruito degli anni Settanta e Ottanta, lasciato a favore delle nuove edificazioni e dal quale chi sperava di ricavare affitti e introiti per una tranquilla vecchiaia ha dovuto presto ricredersi.

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L’edilizia, dunque, diventando l’unico settore espansivo, si è presa i mezzi che non sono andati alle innovazioni, all’adeguamento tecnologico richiesto, per restare nel tessile abbigliamento, da una subfornitura che non poteva più competere sui prezzi con la concorrenza globale. E che avrebbe richiesto gli investimenti sulla qualità divenuti indispensabili ora, dopo che si è preso coscienza del problema. Solo che le risorse, finite nella pietra, non ci sono più. Mai, nella storia di una città per la quale i settant’anni di benessere vissuti dopo il 1955 sono ben poca cosa rispetto ai secoli di ristrettezze che li hanno preceduti, si era assistito a uno spreco così esteso, dovuto a scarsa lungimiranza e ricerca di tornaconto immediato. 

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Sarebbe facile, a questo punto, prendersela con i pubblici poteri, con le amministrazioni Campedelli (2004-2014) coincise con la fase più calda del decennio in esame. Fenomeni così vasti e di così ampia portata non si possono spiegare con un solo responsabile. Se la città è un manufatto prodotto da volontà, interessi e azioni, le mani ce le hanno messe tutti, nella scriteriata espansione urbana di Carpi: i Carpigiani che vi hanno investito le proprie aspettative di redditività e sicurezza; gli istituti di credito che le hanno assecondate; una mentalità diffusa attenta al singolo edificio e indifferente al contesto e della quale imprese e progettisti sono stati fedeli esecutori, traendone i maggiori vantaggi, finché è stato possibile. E mettiamoci pure i giornali, poco propensi ad andare controcorrente. Con tutto questo, non si vuole togliere all’Amministrazione la sua giusta quota di responsabilità, per essersi adattata a propria volta all’andamento, senza la minima intenzione di correggerlo e indirizzarlo. Altro che Comune comunista, rigido custode della pianificazione di stile sovietico… La rigidezza sarà stata sui particolari costruttivi, sulle soluzioni progettuali, sui punti, insomma. Ma sulle linee dello sviluppo urbano le Giunte Campedelli, con gli assessori all’Urbanistica Mirco Arletti prima e Simone Tosi poi, sono state l’incarnazione del più puro liberismo, del laissez-faire più sconsiderato. 

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La prova più evidente sta in due fatti correlati. Da una parte si sono dimenticati i Piani poliennali di attuazione (i Ppa), ovvero le “valvole” con le quali un Comune può stabilire dove e quanto si potrà effettivamente costruire nel volgere di tre/cinque anni, nell’ambito di quanto permesso dal Piano regolatore generale. Le Amministrazioni citate hanno aperto al classico tutto, ovunque e subito, limitandosi a offrire a Consigli comunali poco attenti (con qualche eccezione) la possibilità di autorizzare la presentazione di piani particolareggiati. Ma come avrebbe potuto un Consiglio comunale concedere un’autorizzazione a presentare un piano e a negarla a un altro, senza criteri di riferimento fissati in precedenza? Sarebbero apparsi atti di arbitrarietà: e infatti sono stati puntualmente autorizzati tutti. 

Dall’altra parte è dal 2006 che si parla di Piano strutturale comunale (Psc) da sostituire al Piano regolatore vigente, per adeguarlo alla legge urbanistica regionale. Non lo si è fatto finora, rinviandolo continuamente, perché il Psc obbliga invece a stenderli, i Ppa: si chiamano Piani operativi comunali (Poc) e hanno la stessa funzione di regolare su un arco di tempo limitato quello che si può costruire. In attesa del Psc che non arriva mai, si continuano ad approvare Piani particolareggiati, edificando gli ultimi interstizi concessi dal Prg. E poiché la cattiva coscienza dilaga, si esaltano con i comunicati i pochissimi episodi (e metri quadrati) ritornati da edificabili ad agricoli, molto più per risparmiare l’Imu che per vocazione ambientalista.

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Ha detto una volta Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food: “Il territorio italiano è la scena di un delitto dove l’arma è stata il cemento; l’assassino chi ha la responsabilità di aver detto di sì; i complici quelli che potevano dire di no e non lo hanno fatto; il movente, l’avidità e la speculazione”. Parlava dell’Italia, ma Carpi non ha fatto eccezione. 

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