La Diocesi di Carpi e le sue trasformazioni alla luce dell’Annuario edito in questi giorni

Estranea e “straniera”

In 15 anni, i sacerdoti stranieri sono passati da zero a 13, una delle percentuali più elevate a livello nazionale. L’aumento parallelo delle religiose. Una supplenza a carenze organizzative e crisi vocazionali che può scavare fratture. Un Vescovo solo a

E' di questi giorni la pubblicazione dell’Annuario 2016 edito dalla Diocesi di Carpi. La precedente edizione è del 2008 ma è utile risalire ancora più all’indietro, a quella del 1999, per poter cogliere meglio le trasformazioni avvenute negli ultimi 15 anni in questa che resta la più antica istituzione cittadina. 

UN CAMBIO STRUTTURALE

Alla soglia del nuovo millennio – anno 1999 – il presbiterio, vale a dire l’insieme dei sacerdoti della Diocesi, ammontava a 60 unità, con un’età media di 63 anni e per una popolazione di 115 mila residenti. A loro si aggiungevano i quattro religiosi del convento dei minori osservanti di San Nicolò, di età compresa fra gli 84 e i 39 anni. Più della metà dei presbiteri risultavano originari della Bassa modenese, con netta prevalenza del Mirandolese: Mortizzuolo, Gavello, Cividale, Fossa e San Giovanni di Concordia, San Giacomo Roncole, San Martino Spino, Cavezzo, San Possidonio. Questo tratto è sempre stato una caratteristica della Diocesi: c’è un nesso evidente, infatti, tra il proliferare di vocazioni sacerdotali e una zona della provincia, compresa tra Rovereto e il basso mantovano, che fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata considerata un’area economicamente lontana dallo sviluppo che stavano conoscendo invece, pochi chilometri più a sud, Carpi e Modena. 

Nel 2008, a fronte di una popolazione di 124 mila abitanti della Diocesi, l’Annuario conta 52 presbiteri, con età media di 60 anni, abbassata soprattutto grazie all’ordinazione di don Luca e don Alberto Bigarelli, di 22 e 31 anni.

Compiamo ora un ulteriore salto di otto anni e veniamo alla fotografia che l’Annuario permette di scattare alla Diocesi di Carpi all’inizio del 2016.

I sacerdoti (presbiteri) assommano a 54 per 129 mila abitanti. La media dell’età si aggira ora sui 62 anni, ma se non schizza verso i settant’anni sui quali si attesterebbe la componente nazionale è solo grazie agli innesti di sacerdoti indiani, polacchi e africani. 

La fotografia di oggi restituisce infatti un presbiterio di 13 sacerdoti stranieri – contro 5 del 2008 e nessuno del 1999 – che hanno assunto incarichi di amministratori o di vicari parrocchiali. Il più anziano di loro, don Germain originario del Benin e amministratore parrocchiale a San Martino Spino, non supera i 58 anni.

SACERDOTI DA FUORI

Non si scopre nulla, dunque, nel dire che la classe sacerdotale si sta rafforzando in quantità ed età solo sul versante degli stranieri. E’ un fenomeno che si registra da anni, ma che soprattutto con monsignor Cavina, arrivato nel 2012, ha assunto dimensioni rilevanti. E non si parla qui delle varie “case” che in via Catellani, a Carpi, e a San Martino Carano, vicino a Mirandola, concentrano altri sette religiosi congolesi, adibiti ai servizi pastorali presso l’Ospedale di Carpi, la Casa di riposo Tenente Marchi e l’Ospedale di Mirandola, mentre sono italiani i fratelli di San Francesco a San Martino Secchia. 

Il primo a intervenire pubblicamente sulla questione è stato don Carlo Truzzi, parroco di Mirandola. Nel luglio dello scorso anno, sul periodico parrocchiale la Finestra, si chiedeva infatti perché la Diocesi di Carpi fosse arrivata a schierare una percentuale di sacerdoti stranieri così elevata (scrisse di un 35 per cento, più corretto un 24, rispetto all’8 per cento della media nazionale) e, soprattutto, quali conseguenze – al di fuori di ogni pregiudizio razziale o xenofobo – questo comportasse sui modi della Chiesa di rapportarsi ai fedeli. 

Le cause del fenomeno, oltre alla ben nota crisi delle vocazioni “nazionali” che rappresenta il dato di partenza, don Truzzi le identificava nelle scelte organizzative attuate dal vescovo Tinti, proseguite da monsignor Regattieri, suo potente vicario e confermate dall’attuale Vescovo. Scelte che, imperniandosi sul criterio di un prete per ognuno dei 38 campanili della Diocesi anziché sulle otto zone pastorali, avrebbero messo allo scoperto con evidenza drammatica la penuria di personale religioso nostrano, costringendo a ricorrere ampiamente a quello esterno, prestato fidei donum, da altre diocesi. Che cosa poi questo comporti nei modi della Chiesa di stare in mezzo ai fedeli, don Truzzi lo riassumeva in quattro effetti: la difficoltà di comunicazione dovuta alla lingua; la precarietà di rapporti da costruire con sacerdoti richiamabili in ogni momento dalle rispettive organizzazioni ecclesiali di appartenenza; un’attitudine da funzionari esecutori nei confronti della vita parrocchiale; una cultura vicina all’idea della parrocchia missionaria, che pone in primo piano l’aiuto ai poveri e la scuola, piuttosto che aperta alla comprensione della complessità del mondo (e dei mondi) cattolici, dell’associazionismo e alla formazione dei giovani. 

QUESTIONE DI MENTALITA'

Il quesito che molti si pongono è: erano preparate le parrocchie a un simile cambiamento? Per come sono andate le cose a Rolo, con don Callisto Cazzuoli divenuto collaboratore parrocchiale e don Vianney, congolese, amministratore, si direbbe proprio di no. Tanto più che il prete uscente continua a celebrare messa, mentre quello entrante deve farlo altrove. Ma circolano altri umori che accentuano le difficoltà di questo processo di integrazione dei sacerdoti stranieri: la chiusura nei propri interessi di studio, particolarmente evidente nei sacerdoti provenienti dall’Est Europa; l’attitudine di alcuni sacerdoti africani a dedicarsi ai conti piuttosto che all’azione pastorale e anche qualche concessione allo spirito di clan che li porta in qualche caso a lavorare più per la sistemazione di parenti e familiari che per quella delle anime. 

Complementare all’avanzata degli stranieri è l’arretramento dei sacerdoti italiani. La clausola delle dimissioni a 75 anni, che ha già emarginato don Roberto Bianchini, calerà come una mannaia, quest’anno, sul sacerdozio dello stesso don Carlo Truzzi, a giugno; su quello di don Carlo Gasperi, parroco di Sant’Agata, a Cibeno, ad agosto;  e di don Ivano Zanoni, parroco a Novi, a ottobre. E’ una clausola che assegna un potere enorme al Vescovo, autorizzato a interpretarla alla lettera, com’è avvenuto per don Bianchini; o a concedere eccezioni e proroghe, come sta accadendo per monsignor Rino Bottecchi, che di anni ne ha 82 e continua la mansione di canonico della Cattedrale; o per l’ottantenne don Rino Barbieri, tuttora parroco a Santa Croce.

Il potere che sta esercitando monsignor Cavina in materia di scelte del personale religioso e destini dei “pensionandi”, appare del tutto discrezionale. E’ vero che la Chiesa non ha mai preteso di essere assimilata a un istituto democratico. Ma non risulta che vengano riuniti spesso neppure gli organi consultivi della Curia, vale a dire il Consiglio presbiteriale composto da 9 sacerdoti e che dovrebbe dire la propria un po’ su tutte le questioni diocesane. Non sono frequenti neppure le sedute del Collegio dei Consultori, “supplente” del Vescovo e tenuto a fornire pareri sulle problematiche di natura economica. E non si hanno infine notizie del Consiglio pastorale, composto da laici e sacerdoti in parte eletti e in parte nominati, che non si è mai riunito, nonostante sia previsto dal Codice di Diritto canonico. Qualcuno lo ha definito spiritosamente “in sonno”, mentre nell’Annuario diocesano 2016 non viene neppure menzionato. 

DECISIONI AL CENTRO

Deriva in primo luogo da questo, la sensazione di un processo di centralizzazione che si è andato molto accentuando con l’arrivo di monsignor Cavina. Un processo del quale l’ampio ricorso agli stranieri e la sostanziale indifferenza ai vuoti aperti dai pensionamenti, sono solo un aspetto. L’altra faccia della stessa medaglia è il “cerchio magico” che si è andato formando intorno all’attuale Vescovo, quasi a colmare il deserto degli istituti di partecipazione e la rarefazione dei rapporti con i parroci. Ne fanno parte soprattutto il fiduciario economico Paolo Ranieri, l’economo e delegato all’edilizia di culto Stefano Battaglia, un nucleo ristretto di sacerdoti che si contano sulle dita di una mano, il responsabile della ricostruzione post terremoto, ingegner Marco Soglia e padre Ermanno Caccia, direttore del periodico diocesano. Si tratta di personale di governo e di amministrazione con due tratti in comune: l’estraneità, con poche eccezioni, al territorio diocesano, e la “chiamata” diretta da parte del Vescovo.

Ma c’è un ulteriore aspetto del processo di marginalizzazione del personale italiano proveniente dai canali tradizionali di formazione: l’ampio ricorso alle religiose. L’Annuario diocesano 2016 ne dà un quadro preciso, elencando la presenza di venti fra ordini religiosi femminili (le Clarisse e le monache Cappuccine) e congregazioni. Nel 1999, per dare un riferimento, erano la metà, mentre con il vescovo Tinti, nell’Annuario 2008, ne compaiono 13. Se si escludono le Clarisse, le Suore di mamma Nina e le Cappuccine, carpigiane a tutti gli effetti, tutte le altre religiose sono affiliate a case generalizie esterne: di Mantova, Modena, Parma, Bologna, Alessandria, Lugo, Fiesole, Verona. Il record spetta comunque a Roma e Bergamo, città alle quale fanno riferimento ben sette di queste congregazioni. Perché tante suore? La risposta potrebbe fornirla solo il Vescovo, con il quale è avvenuta l’impennata. 

A giudicare dalle mansioni anche parrocchiali che spesso sono chiamate a svolgere, ben oltre i tradizionali compiti di assistenza e l’impegno sociale, si direbbe che, insieme ai preti stranieri, siano loro a rappresentare la maggior copertura, la forma più evidente di supplenza alla crisi del sacerdozio tradizionale. Torna anche in questo caso l’interrogativo: erano preparate le parrocchie a un simile cambiamento? Tanto la problematica dei preti stranieri quanto quella del largo ricorso alle religiose (paragonabile per crescita solo all’incremento dei diaconi passati da quattro a sedici nei 15 anni considerati) inducono a qualche riflessione sulla facilità con la quale si sta procedendo alla “rottamazione” di sacerdoti anziani, che vecchi non sono e che potrebbero rappresentare ancora un valido supporto per la vita parrocchiale. In attesa di tempi migliori, ovviamente: che non verranno comunque da sé e che richiederebbero, a detta degli stessi sacerdoti, ben altra cura da riservare alle giovani leve.

SCENARI FUTURI

A fronte di un siffatto rimescolamento del personale religioso e di una così evidente frattura fra vertici e base, la domanda d’obbligo circa i percorsi futuri della Diocesi di Carpi non dovrebbe avere, come risposta, la sua cancellazione, cosa temuta in passato. Chi conosce le cose ecclesiastiche assicura che è stato decisivo che sia sopravvissuta al depotenziamento regionale conseguente alla soppressione di 80 diocesi avvenuta nel 1984, all’epoca della modifica del Concordato intervenuta fra Bettino Craxi e monsignor Attilio Nicora. Al momento, si può solo dire che il cammino prosegue, all’insegna di una forte personalizzazione e di un accentramento nella figura del Vescovo. Dev’essere il segno che i tempi attuali sono riusciti a imprimere anche sui secoli della Chiesa di Carpi. 

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