BOLOGNA – Il dirompente potere espressivo del linguaggio fotografico viaggia in quasi cento anni di industria e lavoro con le opere di grandi fotografi della collezione Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), il centro polifunzionale e spazio espositivo realizzato qualche anno fa a Bologna dalla omonima Fondazione Mast e dall’imprenditrice e filantropa Isabella Seragnoli.
“La forza delle immagini” è il titolo della mostra, inaugurata qualche giorno fa nell’ambito del festival “Fotografia Europea” di Reggio Emilia e che sarà visitabile (gratuitamente) fino al 24 settembre. L’esposizione presenta una selezione di oltre 110 fotografie di 67 diversi autori che copre quasi cento anni di meccanismi affascinanti e contraddittori del sistema produttivo visti da molteplici prospettive. “Il percorso espositivo intende metterle in luce, impiegarle attivamente, facendo interagire le foto tra loro, giustapponendole per sviluppare una nuova forma di narrazione, più ricca, multiforme ed enigmatica – annota Urs Stahel, curatore della photogallery Mast e dell’esposizione –. Davanti ai nostri occhi sfila un tripudio di immagini, un’epopea visiva, una danza di visioni del mondo del lavoro, una pletora di impressioni dell’industria pesante e di quella meccanica, della digitalizzazione, della società usa e getta”.
Lo sguardo dei fotografi – tra i più noti, Berenice Abbott, Gabriele Basilico, Richard Avedon, Jim Goldberg ed Edgar Martins – è così in grado di restituire una vasta gamma di sfumature, atmosfere e linee temporali attraverso ambienti, zone e settori dell’universo dell’industria e del lavoro. Si va dalle immagini dei macchinari che funzionano anche di notte, quando le fabbriche sono chiuse, ai frenetici e insostenibili ritmi immortalati in una giornata alla Borsa di Chicago, fino ai materiali che hanno caratterizzato alcune epoche industriali. Uno su tutti, forse il più importante, il metallo; ma anche lamiera, acciaio, plastica, pneumatici di gomma, intonaco bianco, asfalto, barili di catrame.
Le foto di spazi e di ambienti sono la struttura portante della mostra. Come i capannoni industriali ritratti da Thomas Struth o Edgar Martins o i bianchi, freddi spazi di lavoro raffigurati nella serie di Henrik Spohler intitolata “Global Soul” e dedicata all’invisibilità dei flussi di dati. Tra le immagini più potenti c’è sicuramente “Mezzogiorno di fuoco”, opera di Jim Goldberg scattata in una discarica di Dhaka in Bangladesh: un’ampia “pianura” ricoperta di rifiuti dove un uomo controlla che i materiali di scarto siano separati dai cadaveri umani. Non mancano poi le contraddizioni, come l’uomo sul carro trainato da un asino fotografato da Pepe Merisio di fronte a uno stabilimento industriale e l’orizzonte delle torri gemelle del World Trade Center che André Kertész inquadra dietro un vecchio campanile. L’esposizione, oltre che mettere a fuoco gli ambienti che caratterizzano il sistema industriale e tecnologico, tocca anche questioni chiave di natura sociale, politica, collettiva che riescono a “scavare” nell’apparente realtà delle cose. Perché, come affermava il surrealista André Breton, “È grazie alla forza delle immagini che col tempo potranno compiersi le vere rivoluzioni”.