Il pero e le prugne

Una prima serata di un giorno feriale qualsiasi. Mi reco in uno dei fast-food della città con l’obiettivo, neanche tanto dissimulato, di farmi perdonare da Sofia, nove anni, per l’ennesimo rientro ritardato causa lavoro. Alla cassa, dopo aver compulsato in maniera abbastanza disordinata e inesperta il menu, ordino alcune sfiziosità da asporto, e mi metto in attesa. Giornata infrasettimanale, l’afflusso è copioso ma non tumultuoso. C’è anzi un’atmosfera quasi rarefatta, con coppie e famigliole che conversano placidamente in attesa di essere travolte, sia dal punto di vista quantitativo, sia sotto il profilo gastro-digestivo, da pietanze succulente ma eccedenti il potenziale di assimilazione da parte di un soggetto normodotato del XXI secolo.

 

Mentre osservo la platea di avventori sereni, persino felici al momento della consegna dei piatti, i miei dubbi sulla diffusa criminalizzazione del cibo rapido, che fanno da contraltare alle acritiche idolatrie dei tempi passati, aumentano. È vero che le grandi catene del cibo all’americana sono impressionanti idrovore di energie e di ambiente, risultando fra i primi motivi di radicamento degli allevamenti intensivi, con tutte le implicazioni ecologiche negative che ne conseguono. È vero che tali forme di ristorazione, basate su hamburger e carni lavorate, sono complici del peggioramento della salute collettiva, soprattutto delle classi mediobasse, che sempre di più nei paesi occidentali accusano obesità e patologie correlate al sovrappeso. È vero tutto, ma è anche vero che c’è sempre il rischio di incorrere, senza volerlo, nella sindrome da radical chic, di chi si sente molto superiore agli altri e guarda con compatimento misto a riprovazione individui e gruppi che cercano, mediante un sandwich e una bibita extra-size, di ritagliarsi un lacerto di eccezionalità in mezzo a vite piuttosto routinarie e tendenzialmente grigie. 

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