Promemoria, Micromega

Allora, sembra, e quando dico “sembra” maneggio tutti gli amuleti possibili, che si stia andando verso una lenta ma definitiva uscita dalla pandemia. D’altra parte ventiquattro mesi di purgatorio misto inferno, a occhio e croce, dovrebbero essere sufficienti per garantirci, agli occhi degli storici del futuro, commiserazione e indulgenza per i nostri precedenti peccati. 

Dato però che si sa come vanno queste cose, che quando si è sotto pericolo o punizione si fanno dei fioretti un tanto al chilo, come delle lucie mondelle qualsiasi, poi, passata la nottata, si stappano le bottiglie di champagne e si fa business as usual, fischiettando, spergiuri, la propria indifferenza agli impegni presi, faccio il guastafeste e ricordo, umilmente, tutte le promesse e i “mai più” votivi che abbiamo sbandierato ai quattro venti, mentre ce la facevamo sotto, per impetrare una qualche benevolenza superiore e scollinare il Covid 19 salvando, come individui e come collettività, la pelle.

Innanzitutto, giusto per partire con le cose concrete, rammento che ci siamo impegnati, fin dalle primissime settimane di manifestazione del virus, a modificare in meglio certe abitudini igienico-sanitarie quotidiane non esattamente conciliabili con una società di massa e globalizzata. Perché è vero che rispetto ai nostri progenitori, che cambiavano abbigliamento giusto in occasione dei solstizi e temevano l’acqua calda perché, dilatando i pori, faceva passare le malattie “aeree”, abbiamo tutt’altra premura per le abluzioni individuali, viviamo in abitazioni più pulite e asettiche e, nel complesso, anche solo nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo ridotto la morbilità da sporcizia di qualche decina di punti percentuali. Però è anche incontestabile che, una volta usciti dai dorati confini delle magioni private e delle routine personali, tutti noi continuiamo ad avere un’ancestrale sindrome di Stoccolma per le cloache e le sozzure. Sappiamo che sono pericolose ma non possiamo farne a meno, quasi a titolo di rimpianto per il brodo primordiale microbico da cui, evolutivamente, deriviamo. La cosa è discretamente plateale in paesi a basso tasso di capitale civico come l’Italia, in cui più i luoghi sono pubblici più attirano la vaga bramosia di imbrattatura e lordura che alberga, luciferina, dentro di noi. Sarà capitato a molti lettori, durante questa lunga traversata del deserto chiamata pandemia, di passare in pochi secondi, e pochi metri, dall’atmosfera asettica fatta di distanze buccali, gel e mascherine di una qualsiasi sala d’attesa o da pranzo alla malabolgia del cesso di pertinenza, fra cumuli di carta igienica, rivoli di urine e, immancabilmente, contenitori del detergente vuoti. Per cui non servono, credo, altre spiegazioni, limitiamoci a sperare.

Il secondo impegno che ci siamo presi, sotto l’incalzare del Covid e di fronte alle evidenze scientifiche sulla derivazione animale del virus (la famosa zoonosi e l’altrettanto proverbiale spillover, con il relativo passaggio di specie), ha riguardato la preservazione degli ambienti e degli ecosistemi (e qui le cose si fanno più complicate, perché un conto è insegnare come si usa la turca e impedire che la gente porti via il sapone liquido dal bagno dell’ambulatorio, altra partita è smettere di essere una piaga biblica per il nostro pianeta). Dato che i virus che ci possono fare male, molto male, sono quelli esogeni e sconosciuti al nostro sistema immunitario, allora, ci siamo detti, se smettiamo di deforestare e antropizzare, entrando per ciò stesso in pericoloso contatto con ambienti inediti per l’uomo ovvero con creature potenzialmente mortifere, è più facile scongiurare il rischio del Big One pandemico. E lo stesso discorso vale per il riscaldamento globale, giacché il ritiro dei ghiacciai, come nella più trita delle sceneggiature cinematografiche, potrebbe riservare brutte sorprese: improbabile si tratti di mostri preistorici ibernati, con la coda e le squame (e i titoli di testa in giapponese), più facile ipotizzare qualche organismo unicellulare (o nemmeno cellulare) che ci scambia per un albergo cinque stelle mentre facciamo la foto ricordo dove prima c’era il permafrost.   

Quindi, prima di tutto lavarsi sempre le mani, portare le mascherine in situazioni di sovraffollamento e promiscuità a rischio e imparare a centrare il buco nei bagni pubblici come siamo capaci di fare quando si tratta del water domestico. 

 Poi, a un livello più alto, riporre la boria da locuste che ci anima dalla rivoluzione industriale in poi, evitando, anche per ragioni meramente egoistiche, di trattare l’intero pianeta (con tutte le creaturine insidiose che lo popolano e dominano da quando noi non avevamo neanche i calzoni corti) come il cortile di casa, in cui si fa e disfa ad libitum. Me le ricordo bene le promesse di buona condotta che abbiamo condiviso, tra un Fratelli d’Italia cantato in balcone e un hashtag #andratuttobene, dalla primavera di due anni fa. 

Come rammento nitidamente – vado un po’ a casaccio – i sermoni sulla Sanità pubblica da potenziare, il superamento della cultura dell’emergenza, la Scuola da finanziare e tenere sempre aperta, in sicurezza e areata, come baluardo di civiltà. Oppure le abbondanti verbocinazioni su quanto sia (sarebbe?) necessario cambiare stili di vita, decelerare, perché la pandemia ci ha paradossalmente costretto a (ri)scoprire l’importanza degli affetti, dei familiari, delle situazioni di densità relazionale e spirituale, in opposizione alla sbornia da effimero e superficiale che contraddistingue la civiltà dei social, dei like e delle apparenze. Ricordo tutto, anche le cose che sono venute un po’ dopo, tipo l’impegno pubblico e politico per una diffusione più capillare dell’alfabetizzazione scientifica, così da evitare le virologie da Twitter e gli epidemiologi della porta accanto. 

Non mi sono dimenticato niente, compresi ovviamente i fioretti e le ripromesse individuali, mie personali, giuro che se ci saltiamo fuori eccetera. Poi però alla fine, anche per me, la domanda è sempre quella, quand’è che finisce tutto quanto, e nel porla, non lo nascondo, mi sento già un po’ Pinocchio, pronto a rituffarsi nel Paese dei balocchi, come se non fosse successo nulla, alla prima facile e immemore promessa di divertimento e leggerezza.