Che icona sei?

C’è allarme, giustificato, sull’utilizzo che le corporation del mercato digitale, da Google ad Amazon, possono fare dei nostri dati elettronici. Delle tracce e delle informazioni che, più o meno consapevolmente, rilasciamo e regaliamo ogniqualvolta andiamo a sfarfalleggiare in rete, oppure utilizziamo congegni ad alta tecnologia. I neo-luddisti sostengono che di fronte a questo strapotere delle major dell’informatica e del web l’unica soluzione è, nella sostanza, un metaforico (e un po’ reale) ritorno alle caverne. Resistere, obiettare, sottrarre forza e collaborazione ai big data sarebbe l’unica opzione in alternativa a un dominio della megamacchina che, altrimenti, farebbe impallidire per intensità e capillarità le peggiori distopie alla “Grande fratello”. Magari le cose stanno così, magari prima o poi dovremo arrivare a un rendez-vous con i potentati della società dell’informazione e dei byte, ovvero a un regolamento di conti con un bel po’ di insane abitudini che abbiamo assimilato e tendiamo a reiterare da parecchio tempo a questa parte (dal mandare messaggi scritti invece che comunicazioni vocali alla voluttà con cui indichiamo negli spazi social quello che facciamo, mangiamo, desideriamo, eccetera). In attesa della sfida finale contro le macchine e i server – e in attesa di capire, sia detto senza cattiveria, se per caso con tutto questo allarmismo sull’eterodirezione digitale delle nostre vite non ci stiamo prendendo troppo sul serio – io, con metodo molto empirico, cerco di godermi le elaborazioni dei dati che i sof- tware fanno sulla mia persona.

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