L’urlo e il silenzio

L'altro giorno, come tutti i giorni, sono andata a riprendermi Cristian all’asilo subito dopo pranzo. Non a riprenderlo, a riprendermelo, perché portarlo via a quell’ora è una cosa che faccio un po’ per lui, perché possa dormire comodo nel suo letto, e molto per me, perché possa addormentarsi appiccicato alla mia schiena. Usciamo dall’edificio per raggiungere l’auto e, a qualche passo di distanza da noi, c’è una nonna, che, a sua volta, è andata a riprendersi il suo nipotino. Il bambino non è in classe con Cristian e, dal suo aspetto, direi che sia nella classe dei più grandi: avrà 5 anni, non di più. Cristian a quell’ora è molto stanco, di quella stanchezza a cui non vuole cedere, che non riesce nemmeno ad ammettere e, dopo una mattinata passata a fare l’estenuante lavoro del gioco e della conoscenza del mondo, ha un estremo bisogno di andare a casa e riposarsi. La stanchezza lo rende, come tutti i giorni, estremamente capriccioso, irascibile, quasi intrattabile, ma si dirige svelto verso il cancelletto, dove aspetta sempre che io arrivi per sbloccarlo e uscire insieme. Dietro di noi, sento un vociare provenire dalla nonna: urla al nipotino di farsi tenere la porta aperta, evidentemente la sua statura non le permette di raggiungere agevolmente l’interruttore per sbloccare il cancello. Il bambino, solerte, mi grida, da dietro, di aspettarlo e lasciare la porta aperta per lui. “Ok”, gli urlo di rimando, e attendo che arrivi per mollargli il cancelletto e raggiungere presto casa, dove finalmente Cristian potrà dormire e smettere di fare capricci. 

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