Nostalgia del Pci

Luigi Pintor, fondatore del quotidiano Il Manifesto, il quale considerava il comunismo come il più grande tentativo mai compiuto di rovesciare l’ordine sociale che ha sempre retto il mondo, non si spiegava come un’impresa simile “…sia finita come risucchiata da un buco nero, apparentemente senza residui” (da “Politicamente scorretto”, Bollati-Boringhieri, 2001).

Qui, nella nostra cittadina un tempo politicamente “rossa”, la sparizione di ogni presenza dichiaratamente comunista diede luogo a situazioni quasi da commedia dell’arte.

R.G., uomo di sussiegosa militanza, era giunto fino a reggere la segreteria locale del partito.

Un giorno, nel pieno degli scombussolamenti politici degli anni Ottanta-Novanta, chiese di ritirarsi dagli impegni ufficiali, ma solo per alcuni giorni per far chiarezza dentro di sé: una pratica del tutto inusuale  in una forza politica “di lotta e di governo”.

Quando R.G. rientrò per risussumere la sua carica, trovò il posto occupato da un’altra persona per conto di un partito che non aveva più il nome del precedente.

Anche nella nostra realtà dunque era in atto la trasformazione del Pci, la forza politica attiva nella difesa dei giusti interessi popolari, in una sorta di organizzazione di benpensanti piccolo-medio borghesi con ancora gran numero di seguaci.

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Molti anni fa Palmiro Togliatti (il quale conviveva con una signora emiliana, ma forse non amava troppo la nostra complessiva realtà regionale) passò un giorno per Carpi.

Mentre si dirigeva alla sede del partito al primo piano del portico di piazza Martiri, sopra il Bar Milano (scomparso anch’esso, ahinoi!), un popolano gli corse incontro festoso: “Benvenuto compagno Togliatti!”. La risposta del Migliore: “Molte grazie, ma chiamiamoci pure con il “Lei”.

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Un altro episodio più importante getta luce sulla sostanziale distanza tra la dirigenza del Pci (o perlomeno i suoi uomini più avveduti) e quella che veniva chiamata “la base” del partito.

Quand’ancora venivano organizzate le Feste dell’Unità, in onore di Antonio Gramsci che le fondò, venne chiamato a chiuderla l’onorevole Pietro Ingrao. Teatro del comizio un affollatissimo campo sportivo Sandro Cabassi.

Erano gli anni del cosiddetto boom economico: lavoro quasi per tutti e consumismo alle stelle.

Fu sul modo carpigiano di lavorare che Ingrao aveva puntato la propria attenzione: era entrato in diverse abitazioni e lo avevano colpito le macchine da maglieria e quelle da cucire, il movimento, una frusciante animazione, uno sferragliare continuo.

In quelle case tutti lavoravano e si informò in che modo e seppe che le donne occupate  in queste attività dovevano provvedere oltre che al lavoro anche all’acquisto degli strumenti di produzione, cioè le macchine che usavano. Una simile distribuzione del lavoro non era mai avvenuta  nemmeno nei Paesi di più duro capitalismo. Un vero rimprovero verso sindacati e Partito comunista che dimostrava tutta la gravità di una lontananza di fatto tra la dirigenza e la cosiddetta base.

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Gli esempi sopra riportati parlano  di una difficoltà nel Pci quasi irrisolvibile.

Tuttavia il fatto che si verificassero equivoci come sopra, specialmente la rampogna di Ingrao a chi chinava il capo di fronte ai diritti di proprietà, qualche volta può farci immalinconire della situazione  presente e provare nostalgia per il passato.

 

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