La Madonna di Maggio e la figura della mamma

La Madonna di Maggio

 

Maggio: alle margherite e ai ”piscialetto” giallo arancione  subentrano il brillìo e l’esultanza di una primavera che manda al cielo i suoi mille incensi.

Un ideale aspergers spruzzato sui nostri capi ci ricorderebbe oggi riti ormai antichi e caduti in disuso. La celebrazione del mese Mariano, innanzitutto, che rinnovava ogni sera il culto della Madre divina dei cattolici. Il rito era di una lineare semplicità: recita del rosario seguita dall’ostensione del Santissimo a benedizione dei fedeli. L’interno della chiesa (il tempio di Sant’Ignazio di Loyola) con la sua essenzialità architettonica trasferiva ai presenti una sensazione di misticismo cordiale,  quasi domestica. A quel punto un padre domenicano (dell’Ordine più agguerrito nel campo delle omelie dei sermoni) saliva sul pulpito. 

La predica aveva la caratteristica (ogni sera c’era un religioso diverso) di affrontare i temi più comuni, ma anche i più delicati sia della  vita sociale che di quella personale. Nessuna concessione  a filippiche, a paternali o a minacce ultraterrene. 

Gli esempi che venivano esposti, casi ricorrenti nell’esperienza di ognuno, proprio grazie a questa loro concretezza, offrivano al predicatore, per converso, la possibilità di suggerire ai suoi fedeli pensieri e proponimenti di autentica spiritualità. 

Era, quel mese Mariano nella chiesa dei gesuiti molto frequentato, e non soltanto da donne, la prova, se non plebiscitaria molto significativa, del persistere in città del bisogno di riflessione sui misteri della fede. 

Inoltre la Madonna di Sant’Ignazio si legava ovviamente con l’Assunta, la prima protettrice della città.  Più tardi un elicottero calò dal cielo di Carpi sulla piazza dei Martiri, per consegnarci la Madonna Pellegrina ora conservata nella chiesa della Sagra: una copia della Madonna di Fatima che, come sostengono gli esperti in materia, è la più venerata del mondo.

 

La mamma

 

Nell’avventura di madre di un robusto bimbotto che una mia figlia ha intrapreso da circa un anno, mi si rinnovano, con vivezza sorprendente, emozioni ormai lontane.

I sentimenti in campo sui diversi nascimenti, oggi sono,  pressocchè i medesimi anche se le sterzate del tempo li costringono a considerazioni nuove.

Ciò che non cambia è la luce di gioia e serenità sul volto della mamma quando contempla il figlio. E’ uno sguardo difficile da descrivere anche se in esso prevale la coscienza di una salda confidenza in se stessa. Si sente più forte la mammina e sa che deve esserlo anche per sostentare il piccolo che ha messo al mondo e ha allattato fin dal primo giorno, quel fanciullo 

 

“…che ‘nver la mamma

tende le braccia, poi che il latte prese,

per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma”  

(Paradiso, 23,121-123)

cioè per l’istintivo affetto che prorompe come una fiamma nell’espressione del volto e negli atti inconsapevoli.

Allo stesso modo, per intendere la fiducia, la speranza che anima il bimbo, Dante parla di 

“…rispitto

Col quale il fantolin corre alla mamma

Quando ha paura o quando elli è afflitto”.

(Purgatorio, 30, 43-45)

 

I primi mesi (o anni) di vita con la propria madre saldano nei figli un rapporto che non avrà confronto con alcun altro (pur legittimo e profondo).

Non è una esagerazione sostenere che la mamma, anche quando non se ne renda conto, si dona in misura totale, fino a porre se stessa non in secondo piano, ma addirittura al di fuori da tutto ciò che favorisce il bene del figlio  nel quale completamente si annulla.

Una madre che sia veramente tale realizza il mito del dono completo di sé ad altri.

Un mito che non pochi colti che vogliono essere sacrali pongono alla base dei loro programmi di elevazione spirituale. 

Ma l’amore materno non ha nulla di mistico. Come un sincero sorriso umano vive della medesima materia che lo costituisce. Per il figlio, quando lo sappia cogliere, è cagione di felicità oltre che di una forza morale che lo preserverà da qualsiasi futuro eventuale senso di colpa.

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