Com'era bianca e luminosa la piazza prima del porfido

«Voi, che avete un giornale…». Quante volte siamo stati avvicinati così, con l’approccio che prelude alla consueta lista di lamentele per questo o quel dettaglio che non va nella conduzione della città. Questa volta, però, è diverso: l’ottantenne carpigiano “di dentro le mura”, specifica subito lui, che ci avvicina durante la visita a una casa di riposo ha qualche cosa di più e di diverso da chiedere. Niente che attenga a lagnanze o rivendicazioni personali, ma qualche cosa che va al cuore della città e che la lega ai propri ricordi: «Voi, che avete un giornale – chiede quasi sussurrando – fate qualche cosa perché la piazza torni ad avere la luminosità e il chiarore che le dava il selciato di una volta, quello dei bianchi sassi di fiume che contrastavano così bene con il rosso dei mattoni del castello e del portico, dandole un’allegria e una luce che ci facevano andare più volentieri la gente. Quei cubetti di porfido lì, che fra l’altro ora mi dicono siano saltati via numerosi e nessuno li risistema, l’hanno come incupita, intristita del tutto».

Prima ancora che farci riflettere sulla sua stravaganza e portata utopistica, la richiesta ci fa correre con il pensiero alle migliaia di foto della piazza che ci sono passate davanti in tanti anni.

Non ce n’è una, almeno per quel che ci risulta e quando non si tratti di interventi manuali del fotografo dopo lo sviluppo della lastra, che proponga quel contrasto tra il bianco del selciato e il rosso dei monumenti con la forza del colore che pure, nella fotografia, senza andare troppo indietro nel tempo, era divenuto comune con le prime pellicole per negativi a colori della Kodacolor fin dal 1941. Ci sarebbero stati dodici anni di tempo, insomma, per scattare qualche immagine che rendesse l’idea, prima che il 17 marzo 1953 la Giunta Losi decidesse di sostituire i sassi bianchi dei fiumi nostrani con il porfido rosso della Val di Cembra (Altopiano di Piné).

Non resta allora che cercare di percepirla, quella differenza, confrontando le foto in bianco e nero della piazza dei due differenti selciati. E si resta sorpresi di quanto l’osservazione dell’anziano interlocutore sia fondata, a dimostrazione che i colori dei ricordi sono a volte più nitidi e marcati di quelli delle stesse immagini fotografiche. Quella sorta di chiarore dal basso che promana dalle foto del primo Novecento è del tutto assorbito dal manto di porfido scelto agli albori della motorizzazione di massa  per rendere funzionale il fondo di piazza Martiri alle automobili. Ma è a tutti gli effetti una deprivazione, la prova di qualche cosa che si è perduto e che ha impoverito il luogo a maggior valore simbolico di Carpi, togliendogli un po’ della propria dimensione umana e scaricandone l’attrattività.

Questo per dire che, pur relegando nell’utopia (ma non la fu l’operazione inversa deliberata sessantatré anni fa) il ritorno a quel felice contrasto cromatico, è sui tratti strutturali che si giocherà sempre più, in futuro, la sopravvivenza e il rilancio di piazza Martiri nell’interesse di Carpigiani e visitatori. E mentre l’Amministrazione non decide e non fa alcunché per non trovarsi l’agguerrita associazione degli ambulanti con i forconi sotto palazzo Scacchetti; e mentre il solo disegno di futuro vagheggiato da qualcuno come una panacea torna a essere la sempiterna idea della riapertura alle auto, nessuno pensa agli interventi, alle modifiche strutturali che si potrebbero attuare per rendere la piazza più appetibile e frequentata non nelle sole occasioni di mercato, di spettacolo o di notte bianca, ma stabilmente.

Eppure piazza Roma, a Modena, sono riusciti a trasformarla da parcheggio a luogo frequentatissimo dalla gente. Eppure, a Soliera, il Castello Campori è stato valorizzato nella sua altezza, ripristinando lo spiazzo verde un tempo occupato dal fossato. Eppure dovrebbe essere chiaro – in primo luogo alla Soprintendenza – che è normale che epoche diverse imprimano ai luoghi immagini diverse e che la piazza Martiri di Carpi non può sopravvivere in eterno come quella di un luogo prima aperto e poi negato al traffico automobilistico.

C’è una dimensione di piazza Martiri da ritrovare che, in sintonia con i tempi, parta da una lettura della sua morfologia, del suo essere non una piazza, ma una strada resa così larga dalle opere difensive e dallo spazio di rispetto al castello imposto dalla Signorìa. Perdute quelle funzioni originarie, lo spazio si è riempito di nulla, o meglio, dei modi con cui le varie amministrazioni hanno pensato di riempirlo: di patiboli, in età estense, di alberi della libertà, in epoca napoleonica, di retorica monumentale con l’erezione del monumento a Fanti, di porfido in funzione delle auto, con Bruno Losi, che ha resistito anche con la pedonalizzazione di Werther Cigarini. Solo le Amministrazioni attuali, dopo che l’avvento della cultura ambientale e di rispetto dei centri storici hanno reso anacronistica la centralità dell’auto, sia come presenza che come assenza, non hanno mai preso in considerazione il problema. Lasciando che sia il mercato, che tutto blocca, a rappresentare il senso della propria impotenza e del proprio abissale vuoto di idee.

L'accesso è riservato agli Abbonati

Se sei già abbonato, accedi per vedere l'articolo completo

Accedi

Accesso completo al sito, più l'
abbonamento digitale annuale

Vi permette di accedere a tutti i contenuti web di VOCE.it e di ricevere la newsletter quotidiana VoceCittà con le notizie del giorno, Voce settimanale digitale e Voce mensile digitale di approfondimento, direttamente al vostro indirizzo mail. Costo Annuo 29€ Abbonati