La cattiva fama degli uomini di legge e il dover giudicare
Metti una sera a cena alla Bottiglieria con il Lions Club femminile Alberto Pio di Carpi, per ascoltare un Consigliere della Suprema Corte di Cassazione. E anziché imbatterti nell’esposizione tutta tecnica e infarcita delle terminologie gergali del diritto, ti capita invece di ascoltare un’autoironica carrellata sulla cattiva fama che perseguita da sempre giudici e avvocati: dal Roberto Vecchioni di “Signor Giudice” al De Andrè di “Attenti al gorilla”, passando per rinvii filosofici e letterari a Platone e Montesquieu, Tolstoi e Stendhal, Oscar Wilde e Carlo Goldoni... È andata così, la serata con il consigliere Ernestino Bruschetta che già nella figura esile e nell’eloquio lento e meditato sembrava impersonare tutta la sofferenza del giudice, uomo chiamato a giudicare altri uomini, a statuire, risolvere e decidere anche laddove la legge non è ancora arrivata (vedi il caso Englaro), scavalcando le montagne di dubbi che si collocano tra la legge e la morale, in un territorio dove trova spazio l’interpretazione che esige poi di essere tradotta in sentenza. E mancava pure che una presidente del sodalizio come Giuliana Gibellini, psicoterapeuta e specialista in Psicologia clinica, lo incalzasse con la domanda delle domande: fino a che punto l’uomo è responsabile di quel che fa?