L’8 dicembre presenta “La cucina carpigiana”

La cucina solipsistica di D’Orazi e il mangiar bene di casa nostra

La definizione di “cucina solipsistica” non è, al contrario di quello che chiunque potrebbe pensare, la versione enogastronomica della condizione di “monade senza finestre” nella quale Goffredo Guglielmo von Leibnitz racchiudeva l’individuo. E neppure una tavola apparecchiata dal più puro egoismo, come indurrebbe a credere la traduzione del termine solipses con la quale l’apostata gesuita Giulio Clemente Scotti ritraeva beffardamente la Compagnia di Gesù, congrega, appunto, di “cercatori di sé”. Men che meno dovrebbe essere ricondotta al solipsismo metafisico di un Malebranche o di un George Berkeley, trattandosi di cucina, dunque di quanto meno somigliante alla ricerca in Dio dei fondamenti oggettivi della conoscenza. No, nella visione di Mauro D’Orazi, consegnata alla prefazione al suo ultimo volume di cose locali “La cucina carpigiana” (Finale Emilia, 2019, 194 pagine, 32 euro), per “cucina solipsistica” si intende il cucinare esclusivamente per sé. Dove il Sé, in questo caso, non è la condizione umana globalmente intesa, da cui conseguirebbe un tramestio universale di pentole e padelle e cucchiai e coltelli racchiuso però in un frammentario, isolato e disperatissimo affannarsi so litario a tanti fornelli quanti sono gli uomini e le donne che calcano il pianeta. No, il Sé, in questo caso, coincide con l’Io dell’autore, fulminato sulla via del piacere del cibo – come racconta lui stesso – dalla riuscita, esattamente il 3 settembre 2003, alle ore 12,45, della prima pasta interamente cotta, scolata e condita da lui.

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