Una condizione dominata dall'incertezza

Nel limbo di un Covid positivo in isolamento a casa: e sono la maggioranza

di Rino Filippin

Rappresentano la maggior parte dei casi: i positivi in isolamento domiciliare. In Italia si tratta di oltre 42mila persone su circa 73mila contagiati (dati aggiornati al 29 marzo), i cui sintomi non sono tanto gravi da rendersi necessario il ricovero. Ma cosa significa “...non tanto gravi da rendersi...”? E chi si trova in questa situazione psicologicamente come si sente, visto che spesso la visita viene fatta solo telefonicamente e di tampone non si parla nemmeno? Ecco cosa ci ha raccontato un Carpigiano, vittima del Covid-19, che sta superando la malattia a casa. «È stato un incubo – racconta l’uomo, un sessantenne senza patologie pregresse –, ma per fortuna il peggio sembra passato. Spero che la mia testimonianza possa essere d’aiuto sia alle autorità sanitarie, sia ai cittadini colpiti dal Coronaviru». Quando ha saputo di essere malato di Covid-19? «In realtà non ne ho ancora la certezza visto che fino a oggi non sono ancora stato sottoposto al test. Però sia io, sia il mio medico, non abbiamo dubbi visto che un mio amico con cui sono stato a cena è ricoverato in Rianimazione causa virus. Chi poteva immaginare che quella sera di relax e chiacchiere mi sarei ammalato così pesantemente? Certo, il mio amico tossiva spesso e aveva il raffreddore, ma nessuno di noi ipotizzava si potesse trattare di Covid- 19» Quanto tempo dopo ebbe i primi sintomi? «Pochi giorni dopo aver passato la serata con quel mio amico, ho iniziato ad avere brividi e febbre. Mi rendevo conto che poteva trattarsi di Coronavirus, così d’accordo con mia moglie scelsi l’autoisolamento in una stanza di casa nostra, utilizzando esclusivamente uno dei due bagni che abbiamo a disposizione. Con il passare dei giorni la febbre cresceva fino ad arrivare quasi a 40 gradi. Mi sentivo spossato, senza appetito. Contattato il medico di base mi disse che probabilmente si trattava di una comune influenza da curare con Paracetamolo e acqua per reidratarmi, ma poi quando gli dissi del mio amico ammalato con cui ero stato a cena, allora l’atteggiamento cambiò e mi consigliò di chiamare la Sanità pubblica». Questo nuovo medico come reagì al suo racconto? «Mi diede delle rassicurazioni del tipo: “...improbabile che si sia infettato visto che non c’è stato contatto diretto...”. Intanto la febbre restava persistente e alta e anche la tosse secca mi dava parecchio fastidio. Quando seppi che un altro nostro amico che era stato a casa nostra per una partita a carte a fine febbraio, era finito all’ospedale per il virus, allora ho ritelefonato al mio medico di base che mi disse: isolamento e tempo per smaltire la febbre. Poi ancora il solito consiglio: chiamare la sanità pubblica» Questa volta capirono che si trattava del virus? «Il medico dell’Ausl prese i miei dati ma alla fine disse che non poteva farci nulla perché solo il medico di base poteva decidere la via da seguire…: un ping-pong di responsabilità che mi aveva gettato nello sconforto. Intanto io continuavo a stare poco bene, la febbre era in calo ma la tosse aumentava e nessuno ci dava indicazioni su cosa fare. 

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