Si aprono gli archivi sul collaborazionismo durante il governo di Vichy (1940-’44)

La Francia ha deciso di “guardarsi dentro”

Con un decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 27 dicembre scorso e già in vigore, il governo francese ha reso accessibili a tutti gli archivi di polizia e giustizia del governo collaborazionista di Vichy, quello che amministrò la cosiddetta zona libera, non occupata cioè dai Tedeschi, tra il luglio 1940 e l’agosto 1944. La notizia è stata ripresa anche dalla stampa italiana, perché la decisione di abbassare da 75 a 70 anni il termine di scadenza della consultabilità dei documenti, solleverà inevitabilmente il sipario su un periodo con il quale la coscienza collettiva dei Francesi non ha mai smesso di fare i conti. Nella mole di documenti che verranno ora messi a disposizione si trovano infatti tutti i fascicoli dei processi aperti durante l’occupazione nazista, le prove dell’attività delle brigate speciali incaricate di dare la caccia soprattutto a ebrei e militanti comunisti, verbali di interrogatori, lettere delatorie, oltre alle indagini effettuate dopo il 1945, con gli atti dei processi a carico dei criminali di guerra. Restano secretati alcuni documenti, ritenuti legati alla sicurezza nazionale, mentre tutti gli altri, che dal 2008 erano accessibili solo a storici e ricercatori, ora potranno essere consultati da chiunque. 

 

Per capire la portata della decisione del gabinetto presieduto da François Hollande, basterà ricordare quanto controverso e dibattuto continui a essere, per la Francia, il quadriennio del governo del maresciallo Philippe Pétain. Dalla località termale di Vichy, scelta perché baricentrica e attrezzata con numerosi alberghi termali idonei a ospitare i vari ministeri, amministrò sotto rigida tutela nazista la parte del paese non occupata militarmente dalla Wehrmacht e, a sud, dagli Italiani. Nell’Europa in gran parte sotto il tallone nazista, Pétain fu il solo capo di Stato salito al potere con l’accordo dei conquistatori, ma non imposto da loro, visto che vi andava perfettamente d’accordo. Ed è questo il primo motivo di inquietudine per la coscienza nazionale dei Francesi. Molti di loro, infatti, lo ritennero – e lo ritengono tuttora – il male minore, nella situazione che si era creata dopo la disastrosa disfatta militare del 1940, la scelta che in fondo aveva permesso a una buona parte di Francia di essere governata da un militare francese, per di più sincero patriota, copertosi di gloria venticinque anni prima sui tragici campi di battaglia di Verdun. 

Ma esiste un’altra ragione che spiega la popolarità di Pétain. Il suo governo interpretava un sentire profondo della classe media francese, per alcuni aspetti collimante con l’ideologia nazista. Erano sentimenti che si alimentavano del rancore verso i governi socialisti della Terza Repubblica ritenuti colpevoli della sconfitta militare; delle aspettative per una rigenerazione morale del Paese, dopo che i rovesci militari ne avevano evidenziato la profonda corruzione; dei valori del tradizionalismo cattolico. 

Soprattutto, va sottolineato, il regime di Pétain interpretava il radicato spirito nazionalista della classe media e dei ceti popolari che induceva a considerare gli Ebrei come “stranieri” (nel 1939 la maggioranza di loro era in effetti di origine straniera), rinfocolando i rigurgiti di antisemitismo mai spenti dopo l’affaire Dreyfus. L’antisemitismo, che diventerà il connotato predominante dell’identità del governo di Vichy, richiederebbe approfondimenti a parte. 

Basti dire qui che nella composita presenza ebraica della Francia del 1940 (330 mila persone, lo 0,8 per cento della popolazione), gli Ebrei autoctoni rappresentavano un bel po’ della classe dirigente della Terza repubblica, puntello dei valori di laicità dello Stato, dell’istruzione pubblica estesa anche alle ragazze, impegnati nei partiti di sinistra, nei sindacati, nelle organizzazioni umanitarie e assistenziali. La componente “straniera” era invece quella più religiosa e chiusa a difendere la propria identità. 

Per reazione tanto verso i primi, per rivalità politica e sociale, quanto verso i secondi, per diversità culturale, la middle class e buona parte dei ceti popolari francesi costituirono facile terreno di coltura per i sentimenti antisemiti che furono all’origine dei crimini maggiori di cui si macchiò il governo collaborazionista. A partire dalla retata del 16 luglio 1942, quando 13 mila ebrei parigini, spesso traditi da “soffiate” di conoscenti e vicini di casa, vennero arrestati, rinchiusi nel Vel d’hiv (il Vélodrome d’hiver) prima di essere deportati verso i campi di sterminio in Germania. A quell’operazione, si è sempre detto, per quanto attuata a Parigi, che era nella zona occupata, non prese parte alcun soldato tedesco, ma 4 mila 500 poliziotti francesi, coordinati da Jean Leguay, delegato nella capitale del capo della polizia di Vichy, René Bousquet. 

E’ questo l’episodio più noto del “collaborazionismo” che, insieme all’antisemitismo, fu l’altro tratto dominante dell’epopea di Vichy e che non riguardò solo le istituzioni e le forze di polizia, ma anche vasta parte di un’opinione pubblica, indifferente verso la sorte degli altri, quando non fu addirittura complice, e per la quale il tornaconto personale e un certo realismo anche un po’ cinico prevalsero nettamente sulle preoccupazioni per la giustizia o sui valori morali. 

In questa che Primo Levi ebbe a definire “zona grigia” della società francese (anche se lui si riferiva a quella italiana) si annidarono una quantità di figure anche celebri della politica, della cultura, dello spettacolo della Francia del tempo. Il caso più noto è quello di François Mitterrand, funzionario del governo di Vichy, collaboratore e amico di Bousquet, prima di una veloce riverniciatura resistenziale. Ma, come ha rivelato nel dettaglio Michael Curtis nel suo “La Francia ambigua” (2004) Charles Trenet e Maurice Chevalier continuarono a cantare sotto i nazisti, mentre Edith Piaf era agli esordi nei music hall; André Gide, François Mauriac, Jules Romains, Roger Martin Du Gard, André Malraux rimasero in silenzio; Jean-Louis Barrault continuò a esibirsi con successo alla Comédie française epurata degli autori, attori e registi ebrei; il teatro continuò a prosperare, mettendo in scena anche opere di Albert Camus, Henri de Montherlant, Paul Claudel e Jean-Paul Sartre; il cinema conobbe una fioritura, con 225 titoli prodotti, solo dieci dei quali accennavano alla guerra e all’occupazione, mentre per lo più si trattava di lungometraggi di evasione diretti a enfatizzare la vita sana e il lavoro. Solo Jean Gabin, per restare nel settore, se ne andò via, a Hollywood, mentre le colleghe attrici più famose si facevano riprendere da un documentario del marzo 1942 durante un allegro viaggio in treno da Parigi a Berlino. 

L’autore citato, Michael Curtis, è fin troppo severo con quanti si limitarono ad attendere che i tempi passassero o, addirittura, vi costruirono il proprio successo o, nel caso di imprenditori, le proprie fortune economiche. Soprattutto con quelli che, al pari di Mitterrand (ma Curtis vi include anche Sartre) ritennero di purificarsi per ripresentarsi integri, solo perché militarono brevemente nella Resistenza o ne vollero essere, dopo, gli interpreti. 

L’apertura tuttavia degli archivi decisa da François Hollande (il cui padre, ma la notizia è cancellata nella versione francese di Wikipedia, ha avuto un passato di collaborazionista prima di battersi con l’Oas per mantenere l’Algeria alla Francia e di presentarsi alle elezioni in una lista di estrema destra), non permetterà più di liquidare quei quattro anni come una parentesi, un’aberrazione nella quale la nazione francese non fu coinvolta, avendo potuto contare sulla collaborazione solo di una minoranza. 

E’ la tesi che per settant’anni ha rallentato la presa di coscienza, che ha fatto occultare e distruggere prove, che ha differito per decenni la condanna di criminali di guerra come Maurice Papon, finito all’ergastolo solo nel 1998, o di Paul Touvier, graziato da Pompidou nel 1971. Ed è la stessa tesi di François Mitterrand che ancora nel 1994 spiegava come “…la Francia non è responsabile, come non lo è la Repubblica”.

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