Roncaglia e Menon lo raccontano a Toma&Tomi

L’Appennino vissuto tra antichi cibi e sapori

Carpi – Delle tre “vie emiliane del gusto” tracciate da Slow Food per far conoscere le tradizioni enogastronomiche della regione all’Expo, loro, la coppia carpigiana Vanda Menon, geriatra, e Pier Luigi Roncaglia, alimentarista, avevano scelto la più complicata, quella appenninica, denominata anche “alta via dei parchi”. Mentre gli altri due percorsi ricalcavano infatti la via d’acqua del Po e la via Emilia, quello dei parchi, predisposto con la collaborazione del Cai, si snodava tra valli e montagne dell’Appennino tosco emiliano, scegliendo come tappe i rifugi in cui fosse possibile cenare con le specialità di cui è ricco ogni anfratto della tormentata catena montuosa che segna i confini meridionali della regione. Ce l’hanno fatta, i coniugi Roncaglia, a compiere l’impresa, dedicandovi diversi giorni di ferie tra l’8 agosto e il 18 settembre, sobbarcandosi più tappe di tutti e procedendo da Rimini fino a Piacenza (la camminata è stata interrotta solo da qualche rientro in città e successivi ritorni sui monti) in quello che si potrebbe definire un viaggio alla riscoperta di cibi e tecniche di preparazione ormai dimenticati. Immagini, racconti, curiosità, aneddoti e soprattutto sapori e gusti legati a quell’esperienza verranno illustrati al pubblico dai due protagonisti nel corso di un incontro patrocinato da Slow Food e in programma giovedì 19 novembre, dalle 20,30, presso “Toma&Tomi” il negozio di libri e formaggi che Loanna Giroldi gestisce in viale Carducci. Sarà una ricostruzione del viaggio tappa per tappa, dalla partenza da Pennabilli, dove sono stati guidati dal Cai di Rimini alla scoperta dei “Luoghi dell’Anima” il museo nato dalla fantasia di Tonino Guerra per invitare alla meditazione sui tempi trascorsi, fino al borgo di Vigoleno, nel piacentino, con il suo magnifico complesso fortificato eretto sul crinale tra la valle d’Ongina e quella dello Stirone, rimasto intatto dal X secolo a oggi.

Che idea si è fatta, Roncaglia, percorrendo l’arco appenninico da est a ovest in 18 tappe? Qual è lo stato di salute della montagna emiliano romagnola?

«Quando siamo partiti, la prima cosa che ci disse un alto esponente del Cai fu: “L’Appennino è morto”. E’ stata poi un’autentica sorpresa scoprire, procedendo di valle in valle, che non è così, che la montagna sta tornando a vivere. E questo grazie all’arrivo di giovani che si comprano un pezzo di terra, lo coltivano, ne ricavano i prodotti che trasformano e confezionano, certo per piccole quantità, andandoli poi a vendere soprattutto nei mercatini settimanali, in quelli del contadino o ai gruppi di acquisto solidale. E’ un fenomeno che abbiamo notato in particolare nell’Appennino bolognese e in quello romagnolo: qui non è difficile imbattersi in coppie con bambini in età prescolare che crescono sapendo tutto della natura e dell’ambiente che li circonda. Qualcuno ha preso casa, qualcun altro è diventato gestore di rifugi: sanno di essere isolati, ma al momento non si pongono il problema della scuola per i figli e dei collegamenti con i centri abitati»

Ci parli dei prodotti…

«Ci sono colture, come quella delle api e del miele, che caratterizzano tutta la catena appenninica della regione. Per il resto, ogni valle e ogni comunità ha le proprie specialità da raccontare. A Santa Sofia, la località più importante della foresta umbro casentinese da cui si raggiunge la diga di Ridracoli, le cose che si comprano sono tutte prodotte in loco, rigorosamente a chilometri zero. C’è un fornaio, per esempio, che la farina la ricava dal frumento di un campo di grano che coltiva lui stesso. E la filosofia dei chilometri zero l’abbiamo ritrovata con il gestore del rifugio del Lago Santo parmense che la pratica per tutti i prodotti: non vuole neppure che glieli portino con mezzi meccanici. A Brisighella, si sa, coltivano l’olio migliore e più costoso, anche oltre i 35 euro al litro. E tengono tanto alla qualità, che lo scorso anno, in concomitanza con la malattia degli ulivi, il Consorzio ha deciso che non venisse prodotta neanche una bottiglia. A Casola Valsenio, sull’Appennino ravennate, hanno creato un Giardino delle Erbe, con terrazzamenti distinti secondo che si tratti di erbe alimentari, medicinali o riservate all’impollinazione delle api, mentre a Castel Delrio, sopra Imola, siamo andati alla riscoperta della civiltà del castagno, rinata dopo il flagello della vespa cinese. Al rifugio di Monte Cavallo, vicino al passo del Granaglione, c’è la signora Maria che ha impiegato un anno per mettere a punto una ricetta per le tagliatelle a base di farina di castagne. Qui il castagno lo chiamavano anche l’abero del pane, perché un esemplare di grosse dimensioni poteva siostenere una famiglia per un anno. E nella zona esiste una sorta di partecipanza risalente al tempo di Matilde di Canossa che assegna a ogni famiglia un certo quantitativo di legna da ricavare dal bosco in comune»

E l’Appennino modenese?

«Qui il percorso ha ricalcato il crinale, l’alta via degli Appennini dal Lago Scaffaiolo al passo di Praderna e al Cerreto e necessariamente si allontanava un po’ dalle zone più coltivate e vissute. In compenso, i colpi d’occhio erano fantastici. Vedere dal tratto parmense l’isola Palmaria nel golfo di La Spezia o le luci di Firenze dal Monte Cavallo le assicuro che è emozionante…»

Qualche curiosità che racconterete?

«Siamo stati alla casa mulino di Francesco Guccini, a Pavana. Abbiamo visto le sorgenti del Tevere a Bagno che indussero Mussolini a spostare il confine della Romagna per farle ricadere all’interno della regione che gli aveva dato i natali. Ci siamo svegliati all’alba nel rifugio Casa Ponte di Tredozio, sul lago che all’alba offre un meraviglioso spettacolo di nebbia e colori. Ci siamo spinti fino all’eremo di Gamogna, fondato da San Pier Damiani nell’XI secolo e raggiungibile solo a piedi. Abbiamo visto i bacini artificiali di Suviana e Brasimone che danno energia elettrica a tutta la Romagna…»

Vi siete imbattuti in animali?

«Poco e niente: agosto non è il periodo migliore. Abbiamo visto soprattutto le devastazioni prodotte dai cinghiali, raramente ci siamo imbattuti in daini e cerbiatti, molte tracce di volpi e niente lupi».

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