Stefano Righi domani alla libreria La Fenice terrà il suo ''Elogio della scrittura a mano''

«C'è una connessione stretta fra la difficoltà dei bambini, oggi, ad allacciarsi le scarpe e la loro perdita dell'abitudine di scrivere a mano, e in particolare in corsivo», assicura Stefano Righi, architetto. Questo collegamento che pochi avrebbero sospettato tra l'alto, il medio e il basso dell'essere umano, ovvero tra i grovigli neurologici della mente, la manualità della scrittura e l'azione quotidiana implicita nel calzare le scarpe sarà uno dei tanti risvolti, inaspettati e curiosi, dell'incontro che Righi, appassionato di calligrafia e strumenti di scrittura, dalle stilografiche che colleziona a centinaia agli inchiostri che si fabbrica da sé, terrà alla libreria La Fenice domani, 13 maggio, alle 18,45, con il titolo inevitabile di “Elogio della scrittura a mano”.

«Questo interesse decisamente anacronistico nella nostra civiltà paperless, senza carta – confessa – me lo trascino dietro fin da  piccolo, quando andavo ad aiutare il titolare della cartolibreria Nicolini, in corso Fanti, a completare l'inventario. Poi, c'è stata la scoperta del Museo delle stilografiche Aurora, a Torino, dove mi sono imbattuto in un opuscolo dedicato alla calligrafia e allo scrivere in corsivo che per me è stato una rivelazione, l'incontro con qualche cosa che avevo da sempre dentro di me. E' da lì che ho deciso di impegnare un po' del mio tempo nella missione di mantenere viva l'attenzione sulla scrittura a mano, affidandone le motivazioni a una serie di slide che proietterò nel corso dell'iniziativa e che partono dalle incisioni rupestri per finire alla penna elettronica e alle lavagne intermodali. Per dire, insomma – sottolinea – che lo scrivere a mano in corsivo ha mille sfaccettature e implicazioni, di carattere storico, linguistico e antropologico». Uno di questi risvolti che ha fornito a Righi lo stimolo a trasmettere al pubblico il suo stesso interesse e la sua stessa passione per la scrittura manuale, glielo ha suggerito l'iniziativa dell'altra sera all'Auditorium San Rocco sul dialetto: «I riferimenti a Pietro Bembo – sottolinea – e al suo sforzo di dare vita a una lingua che permettesse più facilmente di comunicare rispetto al latino aulico, mi hanno fatto pensare che in fondo è lo stesso sforzo di democratizzare la cultura che in quegli anni (siamo nella prima metà del Cinquecento, ndr) diversi stampatori, come Aldo Manuzio, stavano compiendo per uscire da stili calligrafici come la “cancelleresca” in uso per gli atti ufficiali e approdare a un carattere come il corsivo, più vicino alla scrittura manuale, che si potrebbe definire il dialetto dello stile romano e che ha permesso anche di contenere le dimensione dei libri, mettendoli a disposizione di pubblici più ampi. Insistere come faccio – precisa ancora Righi – sulla necessità di scrivere a mano, e in corsivo, anziché in stampatello, come in tanti si sono ridotti a fare condizionati dalle tastiere, va in questa stessa direzione. E significa dare una possibilità in più alla manualità di esercitarsi in uno stile che è insieme fluido, arioso, di ampio respiro, evolutosi insieme agli strumenti di scrittura, dal calamo ricavato dalla canna di palude al pennino alla stilografica e al pennarello, fino alla Bic e al pennino elettronico». L'importante è che sia calligrafia che, dal greco, significa “scrivere bello” ed esige applicazione, esercizio e ordine mentale, se si desidera che comunichi anche agli altri e non degeneri nell'indecifrabilità delle ricette mediche o degli appunti disordinati che scandiscono la nostra quotidianità.