Nelle comunicazioni della mattinata di ieri di Paolo Bastia ed Enrico Gragnoli

Convegno sul distretto tessile: l'obiettivo su ricambio generazionale, delocalizzazioni e licenziamenti

Il passaggio generazionale nelle imprese in generale, e in particolare di quelle tessili, e il tema delle delocalizzazioni produttive sono stati i temi al centro di due importanti comunicazioni, tenutesi nella mattinata di ieri, del Convegno su "Il distretto del settore tessile-abbigliamento. Analisi e prospettive”, promosso dal Tribunale di Modena e dagli Ordini dei Commercialisti e degli Avvocati (valeva anche come corso di aggiornamento) e ospitato dalla Fondazione CR Carpi all'Auditorium San Rocco.

Ad affrontare la questione del passaggio generazionale è stato Paolo Bastia, dottore commercialista e docente universitario, che non è entrato nel merito del distretto locale, ma ha riferito dati e ricerche soprattutto nazionali. “Le imprese famigliari hanno un approccio alla governance di tipo chiuso – ha affermato –, con una ridotta separazione tra proprietà e controllo. Secondo un’indagine Deloitte il passaggio generazione è uno dei problemi principali per le imprese, un’esigenza che interessa il 18 per cento di esse, ma si registra uno scostamento del 50 per cento tra questa onda anagrafica e la preparazione degli imprenditori a compiere il salto”. Il docente ha poi riferito un dato sorprendente: un quarto delle imprese famigliari è guidato da leader che hanno più di 70 anni: “Un fenomeno della managerialità che rischia di essere inerziale – ha sottolineato –, perché le strategie in genere sono legate all’innovazione, non solo sul piano tecnologico ma anche a livello di business. Una persistenza strategico-organizzativa può essere un rischio, soprattutto attualmente in mondo che cambia velocemente con la digitalizzazione e i mutamenti di competenze interne alle aziende”. E quindi cosa pensano gli imprenditori relativamente “anziani” in procinto di cedere il passo? “La volontà dichiarata è di mantenere la continuità in famiglia (per i due terzi degli imprenditori) a una seconda e possibilmente una terza generazione – ha spiegato Bastia –. Ma questo atteggiamento presenta diverse criticità perché c’è una preparazione molto modesta: solo il 39 per cento delle aziende sarebbe pronto e attrezzato per il passaggio generazionale. E le cadute, di solito, avvengono alla terza generazione. In questo senso gli investimenti nella formazione manageriale sono fondamentali”. E ha aggiunto: “Le vie di uscita possono essere varie. Si può pensare anche all’inserimento di manager esterno mantenendo alcune quote ai componenti della famiglia oppure facendoli uscire completamente. Senza contare il complesso capitolo delle questioni ereditarie che vanno gestite tramite patti di famiglia, donazioni, holding”.

 

Si è occupato invece di delocalizzazioni produttive all'estero Enrico Gragnoli, avvocato del Foro di Modena e docente di Diritto del Lavoro all'Università di Parma. “Per la verità – ha subito precisato – avrei voluto parlare oggi in presenza di una nuova disciplina legislativa sul tema. Ma questa disciplina non è ancora venuta fuori”. Il relatore si è così dedicato a ricostruire un po' la storia di questo fenomeno, iniziatosi nel 1990, con i numerosi trasferimenti delle produzioni nei paesi dell'Est a minore protezione sociale e conseguente minor costo del lavoro: “Per tutti gli anni Novanta è stata una strategia molto sviluppata soprattutto dalle imprese carpigiane – ha sottolineato – essendo le produzioni di maglieria e confezione molto più facilmente esportabili di quelle, per esempio, meccaniche o delle piastrelle”. A riprova, il relatore ha riferito che molte parti nelle cause per licenziamenti collettivi approdate al Tribunale di Modena erano rappresentate da imprese del Distretto tessile carpigiano e che proprio a quegli anni risale l'inserimento del Distretto fra quelli dell'Obiettivo Due, diretto a contenere le conseguenze di una sua deindustrializzazione. Gli effetti sono stati comunque di lunga gittata, tant'è che la recente proroga del divieto di licenziamento oltre il 30 giugno ha riguardato solo il settore tessile, considerato più fragile e meno pronto alla ripartenza post-pandemica. Spostando lo sguardo sulle generali, Gragnoli ha ricordato come la difficoltà del legislatore di introdurre una disciplina limitativa delle delocalizzazioni si spieghi con lo scontro di due visioni: quella di chi vorrebbe incrementare il sistema di tutela per "trattenere” in Italia le aziende; e di chi, al contrario, vorrebbe attenuarlo per attirare investimenti. “Due visioni che non condivido – ha affermato Gragnoli –: perché il riequilibrio delle opportunità non passa da un indebolimento delle tutele, tant'è che anche in Cina sono notevolmente aumentate; e perché non si trattengono le aziende con la coazione a produrre qui, bensì con la creazione di contesti tecnologici e di preparazione del personale favorevoli, come la Germania ha potuto sperimentare trasferendo nel bolognese la produzione di alcuni modelli di automobili”. E allora dove sta un possibile punto mediazione? Il relatore ha solo potuto illustrare un progetto a cui si sta lavorando al Ministero del Lavoro, anche se non ha nascosto le proprie perplessità circa la sua efficacia: la creazione di un istituto protettivo di carattere procedurale, da lui definito “debole”, che è quello di creare un obbligo di informazione preventiva alle organizzazioni sindacali. E' il cosiddetto avviso comune, nato anche come reazione a certe pratiche facili di licenziamento (come la comunicazione sui cellulari dei dipendenti) e nel quale le associazioni sindacali si impegnano a promuovere con i loro associati il ricorso a strumenti di soluzione delle crisi aziendali diversi dai licenziamenti individuali o collettivi. Ma è una clausola obbligatoria o normativa? Impegna solo i sindacati o ha una ricaduta nella sfera giuridica delle singole imprese? Una sentenza del Tribunale di Firenze va nella direzione dell'avviso comune come obbligo e non come norma: un precedente, a parere di Gragnoli, del tutto fondato che ridimensiona grandemente la rilevanza do questo istituto rispetto alla legittimità dei licenziamenti, quando se ne tornerà a discutere anche per il settore tessile.