Riciclati, riusati o a scomparsa: parte dai tessuti la sfida della sostenibilità

“Sorvolando alcune coste africane o asiatiche, lo sguardo viene catturato  da immense dune colorate che si infrangono nella luce dell’orizzonte  per poi precipitare negli oceani. Da lontano appaiono belle e maestose,  da vicino sono montagne di stracci che fanno venire i brividi. Le fibre  naturali impiegheranno decenni per scomporsi, quelle sintetiche e  artificiali non sono smaltibili”. Così scriveva sull’Espresso del 9 luglio Flaminia Marinaro. Per dire che il cosiddetto fast fashion, l’acquisto  del modello a contenuto simil moda del momento, purché costi poco ché  tanto poi si butta, sta creando un’emergenza planetaria che non si può  più lasciare alla libera iniziativa dei singoli (“Compro solo capi che durano anche se costano di più”). O delegare ai grandi obiettivi – sostenibilità,  innovazione, economia circolare – giusti in sé, ma che ci sembrano  traguardi difficilmente rapportabili alla scala individuale e al massimo  alla portata di quella imprenditoriale, peraltro con non pochi sforzi.  E allora c’è una terza via: quella della moda che sparisce: o quasi.  Una moda, cioè, va sì nella direzione di una vestibilità che faciliti lo  smaltimento, ma anche dell’abito come opera d’arte, da ammirare,  indossare e, sorprendentemente, far evaporare. segue

Non ci si prenda per dei  visionari. Diceva Coco Chanel, richiamata nel servizio dell’Espresso,  che “...far moda e creare la moda non è lo stesso, la moda non esiste  solo nei vestiti, è nell’aria, nel vento che la porta”. E gli osservatori più  attenti si sono accorti che un vento nuovo c’è, impersonato da giovani  generazioni di stilisti e couturier che stanno inventando tecniche  produttive che hanno dell’incredibile. Nelle quali lusso, contenuto moda e  biodegradabilità si trovano in assoluto equilibrio.  Da una riflessione sul tempo (“Ha più valore qualche cosa che dura o  l’effimero? L’alta moda dovrebbe conservarsi nel tempo o le è concesso  di dissolversi?”) la modellista tedesca Eva Heugenhauser è arrivata  per esempio a creare un biotessuto cotto con gelatina e glicerina,  biodegradabile al cento per cento, che si disgrega quando viene versato  in acqua calda. Una designer slovacca, Mata Durokovic, ha inventato  pellami in cristalli commestibili con i quali crea modelli ispirati alla  cinematografia o che richiamano il metaverso e i viaggi spaziali.

 

Nel suo  atélier di Berlino, poi, Natascha Von Hirschhausen punta a prodotti  più commerciali, non pezzi unici come quelli prima citati, ma ripetibili  per una sorta di fast fashion basato su una nuova tecnica a zero rifiuti:  abiti senza eccessi, con filati naturali, pensati nell’ottica dell’economia  circolare. Esattamente l’asse, riferisce sempre il servizio, sul quale il  manager Niccolò Cipriani ha orientato a Prato – città che in fatto di  riciclo e recupero stracci vanta un record europeo – la produzione della  sua azienda che ha chiamata significativamente “Rifò”, alla toscana:  tessuti cento per cento ecosostenibili per prodotti a loro volta cento per  cento riciclabili. È difficile, spiega lui stesso, mettere insieme stracci che  abbiano filati di qualità e ci sono molti scarti nel riciclo, che è possibile più  volte per la lana, ma non per il cotone. Si riesce così a filare un maglione  cento per cento lana riciclata, mentre per il cotone la metà deve essere in  filato vergine: ogni fibra, infatti, ha un valore e una resistenza all’usura  diversi. I tessuti non riciclabili, per esempio, si possono trasformare in  feltro utilizzabile per il packaging.  Anche se il riciclo non equivale a sostenibilità e resta in ogni caso  il problema di ridurre i consumi, gli stilisti del futuro e le imprese non  potranno fare a meno di pensare anche in questi termini. Tanto più che  il Regolamento Espr (Ecodesign for Sustainable Products Regulation)  approvato il 12 luglio dal Parlamento europeo e che diventerà operativo  entro l’anno impone il passaporto digitale per i prodotti, vieta di  distruggere l’invenduto, richiede etichette che non contengano slogan  green ma dati scientificamente provati per prodotti tessili durevoli,  riparabili, riutilizzabili e riciclabili. E quando seminari di Carpi  Fashion System come quello del 21 luglio parlano di bandi regionali per  l’innovazione a favore delle imprese culturali e creative e di consulenze  a progetti di fattibilità per innovazioni di prodotto e processo mirate  a sostenibilità ed economia circolare, significa che non si sta volando  nei cieli dell’utopia, ma che il vento di cui parlava Coco Chanel si sta  avvertendo bene anche qui.