Giorgio de Mitri: arte e cultura le fonti della comunicazione

Ha fondato Sartoria Comunicazione. E da Modena gestisce l'advertising di alcune delle maggiori corporation mondiali. Forte di una creatività eclettica, nella quale si fondono arte, musica, cinema, teatro e fotografia.

Nei suoi incontri con personalità originali e innovative, Voce non poteva non imbattersi in Giorgio de Mitri. Modenese, 56 anni, direttore creativo ed editore, figura eclettica in bilico tra comunicazione, cinema, fotografia, arte, teatro, moda, de Mitri ha creato a Modena, nel 1998, Sartoria Comunicazione dove sviluppa per marchi come Nike, Philip Morris, Mandarina Duck, Converse, Telecom Italia, Microsoft, Ray Ban un approccio integrato alla comunicazione aziendale, nel quale le esigenze commerciali si fondono con la ricerca della migliore espressività artistica. La passione per l’arte e per la fotografia è documentata anche dall’attività della Fondazione de Mitri, costituita a Modena nel 2006 allo scopo di creare una cerniera tra il lavoro artistico e la comunicazione delle corporation.

Il testo che segue è il riflesso di una conversazione con il co-editore di Voce, Maurizio Marinelli.

 

Quando si chieda a de Mitri, modenese doc, ma cittadino del mondo formatosi nel vortice dei mutamenti culturali e di costume degli anni Ottanta, quale sia stato il suo percorso professionale, è come assistere al tratteggio di un affresco grandioso, di una policromia di ambienti, circostanze, svolte esistenziali e culturali e, soprattutto, incontri, con l’affollarsi di figure rappresentative di tendenze, movimenti, cambiamenti... Si parte dagli studi di Scienze politiche a Bologna nella prima metà degli anni Ottanta con professori straordinari come Pombeni, Galli, Prandstraller, Matteucci, Bonazzi, Gentili. E poi, sempre a Bologna, nella seconda metà degli anni Ottanta, ecco i contatti con il gruppo di Ambrogio Vitali, Franco Berardi, Valerio Monteventi. E poi la Modena molto vivace di Piera Detassise di Fabrizio Grosoli con l’Ufficio Cinema, e il bando di concorso per regia cine-televisiva che si appoggiava a Nanni Moretti come mentore e al quale de Mitri riesce ad accedere, cominciando un’esperienza che lo avrebbe portato a girare il primo e unico film di Stefano Benni.

Ma siamo solo agli inizi di una sequenza, che nel racconto di de Mitri vedrà, in successione, un bel cammeo di Piera Detassis (“Una persona che ricordo con grande tenerezza, perché in quegli anni non era facile lavorare e lei portò a Modena delle persone meravigliose”); il fervore di Bologna al tempo di Mauro Felicori assessore comunale alla Cultura, con il contraltare dell’Isola del Cantiere occupata dai ragazzi dell’Indiano; bei ricordi di incontri con figure eccezionali, come con Gianni Volpi, appassionato fotografo (“Un amante del bello che portava un diciassettenne come me a cene e spettacoli con personaggi che poi lui ritraeva, come Lindsay Kemp e Paolo Conte che era fra l’altro un grandissimo giocatore di scopone scientifico, come mio padre”); l’ingresso a pieno titolo, nella Bologna dello straight-edge, degli inizi dell’hip-hop, del mondo writing, della Biennale per i giovani artisti.

E poi Andrea Pazienza (“Uno che riusciva a raccontare la mia esperienza di adolescente con tre tavole in croce”); l’affiorare dell’interesse sempre maggiore per la comunicazione nel suo lavoro con Filippo Partesotti, Alessandro “Jumbo” Manfredini e con Patty Di Gioia, la compagna di allora, tuttora suo braccio destro in Sartoria Comunicazione; la ricca biblioteca di casa; il conflitto con la famiglia (“Quando prendi la Vespa e scappi da casa perché hai litigato con la mamma”), contenuto dall’intelligenza del padre e della madre, che «...si sono sempre fidati, anche perché la mia generazione ha visto uno sterminio a causa della droga». La cultura giovanile entra nella sua vita professionale a partire dall’88, con l’editore Ettore Zanfi che voleva fare una rivista sulle discoteche e lui, da studente universitario innamorato di Thomas Kuhn e delle lezioni di Borsari al San Carlo, si sperimenta in un marketing dettato dall’esperienza politica e dall’industria del divertimento. «Quella è stata la mia intuizione – precisa –: un determinato marketing che era il positioning di Jack Trout; i libri che mi prestavano Berardi e Vitali; il Pierre Lévy di “Le tecnologie dell’intelligenza”. Questi, nel 1990, avevano già analizzato il post-Covid (sembra di leggere un de Kerckhove o un Latour). La mia fortuna è sempre stata quella di essere un appassionato della lettura e dello studio, con l’intuizione e anche l’incoscienza di saper interpretare le spinte e i desideri di tutti i miei coetanei e che è una cosa che faccio ancora. Pur veleggiando verso i sessanta, in realtà dentro ho lo stesso spirito incosciente del bimbo che potevo essere quando andai in California per cercare di capire come David Carson avesse rivoluzionato la forma grafica delle riviste di surf. Capisci? Se una cosa mi interessa, io ci vado fino in fondo»Le basi di Sartoria Comunicazione, che nascerà come coppia creativa (lui e Patty Di Gioia), saranno poste quando Zanfi commissiona una rivista sui club a lui e a due ragazzi, uno, Marcello Parmeggiani, reduce dal Dams e l’altro, Stefano Spattini, collega di studi a Scienze Politiche. Ognuno prenderà poi la propria strada, lui in particolare seguendo le proprie intuizioni (“Puoi fare tutti i corsi e master di marketing che vuoi, ma se non hai l’orecchio a terra e la pancia e la sensibilità per interpretare le tendenze del momento non puoi capire proprio”). La sua fortuna sarà quella di riuscire a entrare nelle logiche delle grandi corporation, «...dove le persone che ci lavoravano capivano e intuivano le mie potenzialità e mi hanno lasciato esprimere». Fra le prime c’è Sport&Street e poi Nike, ma ci sono i tanti viaggi, i contatti con molti artefici dei grandi cambiamenti culturali internazionali, lo studio approfondito delle riviste internazionali di costume (“L’internet dell’epoca”). E c’è quella che lui chiama “la sfacciataggine”: per esempio, di andare direttamente da Terry Jones, editor di i-D, rivista di design, per chiedergli di lavorare assieme; o di sapersi costruire un sistema di rapporti molto saldo; o, ancora, di entrare in contatto con figure «...che uno pensa che siano tipo il direttore di Fantozzi, ma che in realtà sono persone che hanno i nostri stessi interessi in fatto di cultura, forme della bellezza e d’arte, come Sandy Bodecker o Mark Parker, suo successore alla guida della Nike. Mentre della gente diceva “Posso parlare con il direttore marketing della sezione?”, per me era cercare invece di vedere con loro che cosa si poteva fare per essere di ispirazione ai figli dei miei amici. Questa è la cosa su cui sto passando gran parte del mio tempo». E aggiunge: «C’è una frase molto bella che è: “Aspira a ispirare prima di spirare”. Noi abbiamo una data di scadenza, proprio qualche giorno fa abbiamo accompagnato nell’ultimo viaggio un grande carpigiano, Franco Belforti, che sul marketing ha fatto dei lavori straordinari con Olmes Carretti per Best Company e poi da solo per la Simint di Giorgio Armani.

Nel cercare di consolare il figlio che io adoro e che ha visto prima morire la mamma dieci anni fa poi adesso il papà, gli menzionavo questo passo degli alpini che, a proposito della data di scadenza, dicono “Chi muore va avanti”. In realtà sono loro che vanno avanti in un cammino che dobbiamo compiere tutti. Allora se uno si rende conto di non essere immortale e di avere un tempo definito per poter fare determinate cose, cerca di andare avanti fino a quando non gli manca il fiato. Io di fiato cerco di tenermene».

La sintonia che de Mitri ha mostrato sempre di avere con il respiro profondo del mondo, la sua assoluta contemporaneità, la sua capacità di sentirsi dentro i fenomeni apparentemente marginali ma che poi diventano mainstream, induce a chiedergli: che cosa sta accadendo con la pandemia? Vede lui, delle vie di evoluzione? «Adoro leggere e informarmi – risponde – e credo moltissimo negli inciampi, stumbleupon li chiamano gli Inglesi. Noi stavamo lavorando in un gruppo di creativi a un progetto che si chiamava “Ma che cazzo sta succedendo?”, perché quando è arrivato il Covid la domanda era What’s the fuck? e questa domanda si è tramutata in What’s the future?. Ho avuto la fortuna di inciampare sui lavori di autori che devo dire mi stanno aiutando moltissimo a capire; “Tracciare la rotta” di Bruno Latour, per esempio, o “Metamorphoses” di Emanuele Coccia. Mi hanno portato ad approfondire la microbiologia, cioè da dove veniamo, chi siamo e quali sono le componenti del nostro essere umani e che cosa ci può consentire di sopravvivere come specie, per cercare di fare qualcosa che ristabilisca l’ordine delle cose, sempre che un ordine ci sia. Ci sono dei lavori secondo me molto belli – dalla scoperta delle cellule simbiotiche eucariote di Lynn Margulis fino al chthulucene di Donna Haraway, passando per tutto il lavoro dell’antropocene di Matteo Meschiari, Antonio Vena, Maurizio Corrado – e quello che sto cercando di fare è qualche cosa che possa servire di ispirazione ai figli dei miei amici, ai figli dei loro figli e soprattutto a mio figlio che è nato nel 2011 quindi ha solo dieci anni. Per me è molto importante creare cose che lo mettano in condizione non di sopravvivere, ma di prosperare. Perché l’uomo può prosperare se si rende conto della finitezza delle risorse e dell’infinitudine del cosmo. E penso che ci siano delle formule di condivisione del sapere che possono aiutare quelli di noi, che Martin Nowak definisce supercooperatori, a creare un mondo migliore. Per quanta forza mi rimane, lavoro in quella direzione lì, se per lavorare si intende pensare, cercare di mettere in connessione le persone e creare cose che non siano a detrimento, ma di nutrimento».