Rocco Bizzarri collabora con le più importanti testate fashion, ma la sua passione è la street photography

Un fotografo tra la moda e la strada

«Mi piace cercare l’errore anziché la perfezione, come l’espressione sbagliata o gli occhi socchiusi: sono dettagli che danno maggiore naturalezza alla scatto». Non è la frase che ti aspetteresti da un fotografo di moda, un settore in cui tutto deve essere preciso e rotondo, ma Rocco Bizzarri è sui generis. Il fotografo carpigiano (classe 1971) è un nome molto affermato nel settore tanto da avere due agenzie che lo rappresentano, una in Italia e l’altra in Germania. Rocco Bizzarri ha allestito set fotografici in ogni parte del mondo, vanta collaborazioni con le più impor-tanti riviste internazionali di moda (Vogue, Vanity Fair, Cosmopolitan, Grazia, ...) e ha firmato editoriali e cataloghi per i brand più conosciuti come Emporio Armani, Replay, Marni, Hugo Boss, Geox, Ice Icerberg, Trussardi junior, Ferrè, OVS, Terranova, Calliope e tanti altri. Ma se gli si chiede qual è il suo ge-nere preferito, risponde a sorpresa che è la street photography, un genere che riprende i soggetti in situazioni reali e spontanee in luoghi pubblici e privati per evidenziare aspetti della società nella vita di tutti i giorni. Oppure alla domanda di quale sia il viaggio più intenso, racconta entusiasta che è stato nel 2010, quando seguì il famoso dj reggiano Benny Benassi nel suo tour in California da San Francisco a San Diego: di giorno in bicicletta a contatto con la natura e di notte a suonare nelle discoteche.

Come hai cominciato la tua carriera di fotografo di moda?

«La passione per la fotografia di moda è nata per caso. Per molti anni ho abitato all’estero: a Londra, a Miami, poi a Milano dove collabora-vo con diverse gallerie d’arte, poi un giorno un mio amico mi chiese di fargli da assistente fotografo per un servizio di moda. Era un settore che non mi interessava affatto, anzi avevo sempre pensato che fosse un mondo molto effimero, ma avevo bisogno di pagare l’affitto di casa, così accettai. Mi pagai le spese, mi divertii e rimasi affascinato da quel mondo»

 

Come prepari un set fotografico?

«Dietro la realizzazione di un servizio fotografico c’è un team composto da tantissime figure. Ci si confronta sul mood da dare a una certa collezione prima di fare lo shooting fotografico. Ogni casa di moda ha un proprio gusto: l’Emporio Armani per esempio deve approvare ogni cosa e ha un gusto classico, tradizionale che rispecchia il canonico concetto di bellezza. Invece Kiabi lascia maggiore libertà di espressione e preferisce una bellezza più naturale, perciò usa come modelli persone normali, perché vuole mettere la clientela a proprio agio»

Fotografi indistintamente bambini e adulti: che rapporto hai con i tuoi modelli?

«Con i modelli bisogna trovare la connessione giusta: ognuno ha un proprio carattere, c’è chi è più altezzoso e chi è impaurito... bisogna aiutarlo in ogni caso a trovare la spontaneità, specie con i bambini. Io fotografo moltissimo per collezioni kids (rappresenta un 50 per cento del mio lavoro). Non è semplice gestire i bambini su un set fotografico, cerco di instaurare un rapporto libero, di rispettare i loro i loro tempi, ho fotografato anche dei neonati ma lo stesso vale anche per età superiori. Cerco di farli divertire e mi diverto anch’io. Non trovo giusto che sentano la fatica»

 

Nella tua carriera hai avuto la possibilità di fare degli incontri incredibili: uno di questi è stato con la famosa ritrattista statunitense Annie Leibovitz (l’autrice del famoso scatto con John Lennon nudo che abbraccia Yoko Ono): com’è stato questo incontro?

«Incontrai Annie Leibovitz per due volte: una volta venne sul lago di Como per fotografare gli attori della seconda saga di Guerre Stellari; la seconda volta in Toscana per lo stilista Roberto Cavalli. Sono rimasto colpito dal rapporto stretto che lei riusciva a stringere in poco tempo con le persone, dalla sua grande pro-fessionalità e dalla produzione che le ruotava intorno: aveva a disposizione tante risorse come fosse una produ-zione hollywoodiana. Tanto per farti capire, arrivò in elicottero per non fare le curve della montagna e la vennero a prendere in limousine»

 

E poi ha incontrato e fotografato l’ex presidente di Israele: com’è successo?

«Fotografai Shimon Peres nel 2007 nell’ambito di un progetto israeliano legato a un format televisivo, in cui due professionisti dello stesso settore ma di paesi diversi si dovevano scambiare i posti di lavoro. Perciò, un fotoreporter israeliano venne al mio posto a Milano, mentre io andai a Tel Aviv. Chiacchierai un po’ con lui e poi feci alcuni scatti. Scelsi di riprenderlo lasciando sullo sfondo un tavolo con dei fiori, ma non ebbe l’accoglienza che mi aspettavo. La foto venne criticata, perché rappresentava un ritratto troppo morbido rispetto all’immagine che Peres doveva comunicare»

 

Nei tuoi scatti la luce occupa un posto centrale: come mai?

«La luce aggiunge tanto ai soggetti. Ogni tanto uso la luce artificiale, come nel caso della foto di copertina di Vanity Fair di dicembre in cui la modella appare “flashata” perché volevo ottenere un effetto pop. Però preferisco la luce naturale e, avendo lavorato in tante parti del mondo, posso dire che la luce migliore si trova in Sudafrica o negli Stati Uniti: lì è meravigliosa, magica, perfetta. Di solito faccio diversi sopralluoghi per capire qual è la luce migliore (se quella del mattino, del pomeriggio e così via) e poi decido. C’è tanto lavoro di preparazione a monte, poi quando si arriva allo scatto finale non si deve percepire la costruzione che c’è dietro e di solito il primo scatto è quello buono».