La guerra, il dopoguerra, la fame, la ricostruzione: sono ancora tanti, a Carpi, quelli che possono raccontare quelle fasi cruciali della storia cittadina della seconda metà del Novecento. Ma Bruno Neri, 85 anni a ottobre, sarto e poi commerciante, nato in una famiglia con quattro fratelli e due sorelle, orfano della madre a sei anni e adottato da Nomadelfia, di suo ci ha messo una cosa in più: i cazzotti. Quelli dati e quelli ricevuti, naturalmente: ma non da rissaiolo di strada, bensì nella rigorosa disciplina delle quattro corde del ring, da peso mosca in anni – fra il 1955 e il 1958 – in cui la boxe era eroica e popolare come il ciclismo. Entrambi sport di fatica, umiltà, fisico e sacrificio, potevano però dischiudere le porte di una carriera anche per chi partiva dai gradini più bassi della scala sociale. E da un proletariato urbano che non era ancora quello delle attuali periferie multietniche, ma era proprio figlio della Carpi povera uscita a pezzi dal conflitto, delle famiglie accampate nelle soffitte del Castello o residenti in modeste abitazioni senza luce della campagna: quando la casa, insieme alla salute precaria dei bambini e al cibo insufficiente, era uno dei problemi più drammatici per la popolazione. Alle spalle trenta combattimenti, con 22 vittorie, cinque pareggi e tre sconfitte oggi Neri riflette sullo spartiacque tra la violenza, che pure c'era nelle contrade della sua giovinezza dalle quali provenivano anche diversi suoi compagni d'avventura sportiva come Curzio Gualdi o Alfonso Sacchi, e lo sport del pugilato: «Nella boxe – sottolinea – non si odia l'avversario, non ne vale la pena. Lo si controlla, lo si guarda: non serve restituire subito e istintivamente il pugno subito, ma capire perché è arrivato e ascoltare chi ne sa di più». E racconta di quella volta che gli misero davanti, sul ring, un avversario che quanto a violenza istintiva spaventava tutti, avendo fra l'altro subito una condanna per aver tentato di uccidere il padre: «Ma l'ho battuto d'astuzia, ragionando, appunto».
Tre anni o poco più è durata la sua carriera: più o meno quanto la storia della Società pugilistica carpigiana che il ring lo aveva allestito in uno dei locali oggi occupati dalla Biblioteca dei Ragazzi, prospiciente il cortile piccolo di Palazzo dei Pio: «Era il 1955 – ricorda Neri –: avevo 17 anni e un amico mi portò ad assistere a un allenamento all'ex Madera, palestra e sala da ballo. Mi è piaciuto: tecnica e potenza, testa e forza insieme, con la regola implacabile che sul ring uno dei due deve soccombere. Sono entrato nella Società pugilistica, anche per fame: loro mi avevano trovato la pressione bassa e mi tenevano su con bistecche di cavallo che portavo regolarmente a casa per i miei. In più mi davano un sussidio di 125 lire al giorno. Anche per questo, arrivavano tanti ragazzi aspiranti pugili. Ci menavamo di brutto in allenamento. Anni dopo, uno di loro, che poi aveva fatto il vigile, mi chiese: “Perché quella volta mi hai dato tante botte?”. Gli risposi che si doveva selezionare: “fare pulizia”, come ci dicevano i dirigenti, vedere chi davvero ce l'aveva, la fame necessaria per andare avanti, perché fra le quattro corde non scappi. E quando la fame è venuta a mancare mano a mano che in città le cose miglioravano, anche la Società pugilistica si è dissolta». Non prima, però, di aver fatto partecipare i suoi ragazzi e Bruno Neri a diversi incontri, a Carpi, dove il ring era allestito nella platea del cinema Corso, e in altri comuni della provincia e anche fuori: «Si provava ogni volta – sorride Neri – una sensazione di paura: fra noi, prima di ogni match, ci dicevamo di sentire il sedere così stretto che non lasciava passare neanche un ago». E aggiunge: «Come quella volta nel mantovano, in cui mi accompagnò il dottor Dante Colli, appassionato della boxe. Mi comunicarono che avrei dovuto incrociare i guantoni con uno che aveva combattuto con Nino Benvenuti nelle preselezioni olimpiche. Dissi che mi dispiaceva, ma che volevo tornare a casa. Non potevo, mi dissero: la riunione sarebbe saltata. Ne nacque un accordo tacito per trasformare l'incontro in una esibizione: in pratica, fingemmo di darcele e portai a casa 2 mila 500 lire...». Mica sempre botte finte, comunque, nella carriera pugilistica di Neri: anzi, con la Società ha vinto un campionato emiliano e uno interregionale: «Dalla finale al nazionale, a Roma, invece, ci spedirono subito a casa: eravamo troppo stanchi». C'è comunque modo e modo di uscire sconfitti da un incontro di boxe, e lui, Bruno Neri, ne ha sempre conosciuto uno solo: «Ne ho date e prese tante – sottolinea con orgoglio – ma non ho mai piegato il ginocchio, quando sono stato battuto».
Bruno Neri ha vissuto in tutte le sedi della comunità prima del trasloco in Toscana
Gli anni da figlio di Nomadelfia
Ci sono tanti altri passaggi, nella vita di Bruno Neri che, oltre ad aiutarlo, come dice lui, «...non a diventare cattivo, ma a difendermi» parlano anche di storia cittadina. Come l'infanzia vissuta sotto le bombe che prendevano di mira la vecchia ferrovia Carpi-Reggio, per la quale la madre lavorava come casellante al passaggio a livello davanti alla Cantina di Santa Croce; le corse a cercare rifugio nella vicina villa ora Molinari; la mamma perduta nel 1945 e il padre che lo affida, con un fratellino minore, al parroco di Panzano, don Manicardi, in quello che era uno dei primi nuclei della futura Nomadelfia di don Zeno Saltini; la mamma di vocazione, Iemina Gavioli, sua indimenticata seconda madre fino all'adolescenza. Ci vivrà dai sei ai 15 anni, Neri, con Nomadelfia: conoscendo un primo trasferimento a Torre Pedrera (Rimini), poi a San Giacomo Roncole. Sarà infine fra i bambini e i ragazzi ritratti da una celebre foto nell'atto di abbattere, nel 1947, i muri di recinzione del Campo di Fossoli per ricavarne la sede dell'Opera dei Piccoli apostoli, fino allo sgombero del 1952 a opera della polizia e al trasferimento definitivo nel grossetano dove Neri farà in tempo a vivere il primo insediamento della comunità in una casa colonica immersa nella natura. Il suo ricordo di don Zeno è quello di «...un padre collettivo che amava tutti i bambini, se li metteva intorno all'altare durante la messa, dava loro la comunione senza problemi, li incoraggiava a raccogliere fondi per la piccola comunità fra la gente che accorreva ai suoi comizi, era disponibile a portarli con un camion anche alla festa dell'Unità, in paese, così come i fossolesi venivano al cinema, la passione di don Zeno, che lui aveva allestito dentro l'ex Campo». Tornato nella famiglia originaria, lavorerà come aiuto dello zio paterno, che faceva il sarto, imparando il mestiere che perfezionerà alla bottega di quel grande artigiano della sartoria che fu Cesare Frignani, in via Andrea Costa, prima di mettersi in proprio. E nel 1968 decide di cambiar mestiere, dedicandosi per un ventennio al commercio di articoli per la prima infanzia nel negozio aperto in corso Fanti, salvo tornare all'antica professione appresa da ragazzo, come rifinitore di abiti al servizio dei negozi di abbigliamento. A chiedergli se abbia un ricordo particolare dell'infanzia vissuta da don Zeno, «...a San Giacomo – risponde – lui aveva capito quanta importanza avesse il gioco, per creare spirito di comunità fra noi bambini. E allora ci prese un pallone da calcio. Facemmo squadra, infatti: quando si scendeva in campo per qualche torneo, cantavamo "...per batter Nomadelfia ci vuol la nazionale”. Mi piaceva, il calcio, ed ero pure bravino. Anche perché il calcio per noi era come il pugilato: non costava niente».