Parole, rubrica Labollatorio di Lucia Verrini su Voce digitale del 26 novembre

Mi piacciono un sacco le parole. Mi piace giocarci, coniarle, storpiarle. L’ironia, le battute geniali, le freddure, non sarebbero tali senza un uso preciso e puntuale di quella parola pronunciata proprio in quel momento, se avessi detto la stessa cosa, ma con un vocabolo diverso o mezzo secondo dopo, non sarebbe mai stata la stessa cosa. Questo per dire che per me i vocaboli sono importanti, abbiamo la fortuna che nella nostra lingua ci sia una parola diversa per ogni sfumatura di concetto, poi credo sia vera la storia per cui utilizziamo una percentuale infinitesimale di tutto il vocabolario della lingua italiana, ma l’ignoranza diffusa non annulla la ricchezza di parole che avremmo a disposizione. (segue)

Le parole sono preziose, sono delicate, sono anche fragili e andrebbero maneggiate colme il cristallo di Boemia, invece ce ne sono alcune, piuttosto importanti tra l’altro, che vengono brutalmente banalizzate. Per fortuna non sono anche permalose, e non si consumano se usate troppo altrimenti sarebbero già lise. “Rispetto”: rispetto è una parola che viene di abitudine sbatacchiata un po’ a caso, è come i jeans, si pensa che stiano bene un po’ con tutto, dipende da come li abbini, invece se ti presenti coi jeans a una serata di gala non va bene nemmeno se ci hai messo sotto le Paciotti argentate, per cui non bisognerebbe scomodare la parola “rispetto” parlando di qualsiasi cosa, dalla figura della donna nella cultura islamica allo svuotamento delle campane del vetro alle cinque di mattina, dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. Poi c’è “libertà”: libertà che è un’idea bellissima, un concetto aulico, un principio cardine, ma che poi viene stuprata per farla andar bene un po’ per tutto, tipo le sorellastre di Cenerentola disposte ad amputarsi un alluce, pur di far credere di riuscire a calzare la scarpetta di cristallo. Quindi questa parola, “libertà”, usata, riusata ed abusata perde un po’ di valore, diventa come il burro spalmato su una fetta di pane troppo grande, non fa più tanto effetto (e lo so che questa è una citazione di Bilbo Baggins).

L’altro giorno ascoltavo mia figlia leggere per compito una favola di Esopo, in cui un cane e un lupo si incontrano e dal dialogo si evinceva la morale, il cane coccolato e ben nutrito ma tenuto alla catena mentre il lupo magro, stanco e affamato ma libero. La consegna era rispondere chi dei due avesse ragione, e ho ascoltato la mia bimba interrogarsi sui pro e sui contro, concludendo che non sapeva chi far vincere delle due posizioni. Si sentiva però quasi in dovere di sostenere il lupo, che risultava già dalla storia in vantaggio, perché comunque cosa c’è di più prezioso della libertà? Sull’altro piatto della bilancia però c’era calore umano, affetto, cure. Compagnia. E’ stato in quel momento che, spiegandolo a lei, sono andata di muso a sbattere contro un’evidenza: che la libertà spesso comporta solitudine. Che se vuoi essere libero di andare, fare e brigare come e quando ti pare devi esserlo anche dai legami. Devi essere solo. E la parola libertà di cui tutti tanto ci riempiamo la bocca e versiamo fiumi di inchiostro e di bile, che mi è sempre parsa scintillante e luminosa come la stella del mattino, di colpo mi è parsa tremolare un po’, come le luci di certe insegne al neon quando stanno per scaricarsi perché consumate da un eccessivo utilizzo.