Se la scuola finisce a maggio

di Lucia Verrini

Se la scuola è, o dovrebbe essere, già di per sé argomento di importanza centrale in un dibattito che non sia prettamente politico, ma che inglobi un ragionamento culturale, amministrativo e sociale, a maggior ragione dopo due anni di pandemia, la gestione del sistema scolastico è stata al centro di molteplici ragionamenti; in un primo momento si sono attivati quegli strumenti definibili come emergenziali, coerentemente a una situazione improvvisa e di fatto mai affrontata: chiusura immediata di tutte le scuole, attivazione della didattica a distanza, predisposizione di tutti quegli strumenti che hanno permesso una seppur zoppicante continuità dell’anno scolastico (interrogazioni da remoto, esami sostenuti attraverso le piattaforme online, colloqui via webcam). Nel complesso credo si possa dire di aver reagito in maniera tempestiva, efficace ed adeguata.

Chiuso l’anno scolastico, si è subito affrontato il tema del rientro a settembre, e già da lì sono iniziati i primi inciampi: l’assurdità dei banchi a rotelle, il tema delle classi pollaio, degli orari scaglionati, mascherine, triage negli atri delle scuole, insegnanti, presidi e personale che si è trovato a dover essere preposto (e quindi legalmente responsabile) della gestione Covid. Tra casi di positività e classi chiuse, convocazioni di massa ai drive trough per i tamponi, polemiche sulle mascherine e autorizzazione a vaccinare anche i bambini, sono trascorsi due anni, due anni in cui da più schieramenti si è sottolineata la necessità di recuperare le ore di lezione perse nei due anni precedenti; ore di lezione che non significano solo impartire insegnamenti e trasmettere nozioni, ma anche ore, giorni, settimane in cui, soprattutto i bambini delle primarie, non hanno vissuto il tempo scolastico, che si traduce in orario da rispettare, compagni con cui imparare ad interagire, insegnanti con cui dover creare un rapporto di rispetto e deferenza, essendo l’insegnante il primo vero incontro con un’autorità che un bambino si trova ad affrontare al di fuori della famiglia.

Si era parlato di prolungare fino ad estate inoltrata il calendario delle lezioni, proposta che ha avuto come conseguenza una levata di scudi dai sindacati degli insegnanti, da una parte, e da gruppi ed associazioni di genitori che dall’altra vedevano rimpicciolirsi la finestra estiva in cui poter programmare le ferie. Arriviamo infine all’anno scolastico 2021/2022, quello che tutti speriamo essere l’ultimo trascorso tra restrizioni, mascherine e didattica mista a distanza e in presenza, anno scolastico che vede il termine ultimo delle lezioni il 3 giugno. Considerando che il 2 è festivo e il 3 è venerdì (quindi per molti considerato un ponte) possiamo ben dire che per la prima volta da decenni, forse per la prima volta in assoluto, il termine dell’anno scolastico combacerà con quello del mese di maggio, fattore che già in un contesto normale dovrebbe essere considerato assurdo, in un momento in cui si dovrebbe correre ai ripari recuperando tempo prezioso per la scuola, suona addirittura ridicolo. L’estate è già un momento delicato per chi ha figli in età scolare da gestire: chi per esigenze lavorative (la stragrande maggioranza) può godere di due, massimo tre settimane in tutta estate, deve coprire i restanti due mesi e mezzo di chiusura delle scuole con campi gioco e centri estivi che ogni anno aumentano il costo di iscrizione, oppure fare ricorso a baby sitter e, per i più fortunati, ai nonni, che parallelamente all’innalzarsi dell’età media in cui si fanno figli, saranno quindi nonni sempre più anziani. Non è retorico dire che anche in questo caso il maggior carico di gestione, e quindi di disagio, ricadrà sulle madri, figura che tanto sulla teoria si vorrebbe parimenti inserita nel contesto lavorativo, quanto poi di fatto viene in queste piccole/grandi decisioni messa in difficoltà nel destreggiarsi tra una presenza sul lavoro che si vorrebbe parificata a quella maschile, e la gestione dei figli. Tutti concordi che non siano quindici giorni in più o in meno a decretare la tenuta di un buon sistema scolastico o la qualità dell’istruzione, mi pare però evidente che in un momento in cui gli insegnanti ricorrono allo strumento dello sciopero per vedere i propri diritti tutelati e il loro ruolo giustamente riconosciuto, in cui i presidi si vedono costretti ad emettere circolari per richiedere un abbigliamento consono in aula (ricevendo per altro cascate di critiche dalle famiglie) e dove si percepisce una chiarissima crisi del ruolo della scuola come istituzione, la scelta governativa avrebbe dovuto mantenere la promessa di porre la scuola al primo posto sul podio delle priorità, elevandola a fulcro educativo non soltanto didattico, ma culturale e sociale. La montagna, anche in questo caso, ha partorito meno di un topolino