Dolcezza en privilegi della malattia

Succedeva che, se mi ammalavo, non sempre era una cosa che mi dispiacesse. Non si andava  a scuola o, ancor meglio, ai tempi del collegio, venivano chiamati i genitori e venivi spedita a casa. Arrivava, in effetti, la zia Claudia insieme a  mia madre che, lei, non ha mai preso la patente ma è stata sempre brava a farsi accompagnare dove fosse necessario o gradevole. Le malattie, allora, erano momenti di vacanza, di sospensione che, di dolore fisico ce n’era poco e non era considerato. In casa, quando ero malata ero coccolata, poi ho capito che poteva anche non essere così automatico e ovvio. Più tardi mi sono stupita quando, con la febbre, venivo spinta ad alzarmi da letto per pranzare a tavola col marito. C’è, infatti chi tende a negare la malattia anche leggera. “Non è niente”. (segue)

Da adolescente ho avuto la varicella ai tempi delle medie. Così, siccome non potevo vedere il mio morosino, ci si sentiva al telefono, quello nero appoggiato al tavolino del corridoio. Erano lunghe telefonate al freddo e mia madre correva a mettermi un fissù sulle spalle per paura che peggiorassi. C’erano sempre momenti dolci entro le malattie che non facevano molto male, non erano certo come le coliche o i colpi della strega in età adulta, o, addirittura le gite in autoambulanza verso l’ospedale per qualche sospetto serio. Là, nella casa vecchia, nella stanza in fondo alle scale ripide, mi veniva concesso il lettone della mamma, la luce accesa, il bicchiere sul comodino, il boccalino sotto il letto e qualcuno che mi faceva compagnia, perché non mi avvilissi e non avessi paura. In certi momenti la bacinella accanto alle coperte serviva a bagnare la “pezzotta” che, strizzata, mi mettevano in testa per un dolcissimo rinfresco fino a che il bruciore della fronte non la scaldava. Un gesto dolcissimo poi ripetuto a dare consolazione a chi vuoi bene. I privilegi erano eccezionali, la tazza col brodo sull’asciugamano bianco a difendere la piega del lenzuolo. L’asciugamano, quello di lino consunto ma ricamato di cifre antiche. (segue)

E poi c’era la spremuta d’arancia. Non è che a si potesse ordinare al bar con l’indifferenza di oggi anche se costa cara. La spremuta era rara, dolce, come una medicina o come una pozione che guarisce. Era il carico di attenzioni che facevano molto meglio dell’aspirina o dalla pezzotta con i semi di lino scaldati nel tegamino per fare maturare la tosse che tormentava i polmoni. Poi veniva anche il dottore che mi faceva dire aaaah…e scriveva la sua ricetta. Spesso, però, c’erano le punture. Non mi sono mai piaciute le punture anche se la Zoe le faceva con leggerezza dopo lungo massaggiare e l’odore di alcool. Con l’attesa che irrigidiva il muscolo. Che differenza la malattia delle coccole con la paura del male e delle cattive notizie dell’età adulta. Che differenza la carezza della mamma che cancella la “bua” e ti fa sentire degna dei privilegi che ti vengono offerti.