L’abito della sposa

Quei primi di aprile del Sessantanove erano giorni di Pasqua e il lunedì dell’Angelo fu il giorno del mio matrimonio. E di quello si può parlare, non dei quasi cinquant’anni di convivenza e di tutte le storie che ci vanno dietro. Compreso il fatto che adesso ci si separa facilmente e una volta no. Se penso al matrimonio come cerimonia, come confronto col sogno di ragazza di una volta si può fare. 

Ancora oggi molte trasmissioni televisive, di quelle che hanno come oggetto pezzi di realtà ricostruita, mettono in scena la cerimonia e la sua preparazione. Appunto, si comincia col vestito. Mia mamma faceva la sarta e non si spaventava certo a progettare un vestito da sposa. Non mi ricordo bene, ma mi sembra che l’organza di seta l’abbiamo comperata a Modena da Pancaldi o da Dallari che vendevano per le sarte più quotate. Metri tanti. La fattura l’abbiamo scelta sfogliando una rivista apposta. Doveva avere la vita alta che era quella che, secondo mia madre, mi stava meglio e camuffava i miei difetti. Non avrei potuto scegliere un taglio stretto in vita. Eppure ero magra e la vicinanza dell’evento mi aveva sfilato di più. Farsi cucire un vestito addosso è un impegno di pazienza, di spilli: per piacere, mamma non tenerli in bocca che  mi fai paura. Di mani scostate appena e di posizioni ferme. Di orli immaginati appena un poco più su delle scarpe che si dovevano comperare. 

La semplicità del modello era impreziosita da un virtuosismo di conchiglie che concludevano le tre gonne sovrapposte che scendevano giù lisce. Le aveva disegnate con precisione perché compissero un giro senza avanzi, le aveva cucite e ribattute poi stirate e appiattite. Sarebbe stato freddo? Poteva essere dato il momento di primavera incerto, così, sotto il corpetto ci stava una bella maglia di lana e i sandali scelti aperti dietro non erano troppo impegnativi. I miei abiti bianchi la mia mamma me li aveva fatti proprio con tutto il cuore e anche con un pizzico di lusso in più che voleva che tutti guardassero la sua arte. Anche quello della prima comunione era una profusione dello stesso materiale, quello si, grande di sottana e di arricci. 

Così, quando percorrevo la navata centrale di San Nicolò adorna di fiori, lenta nell’incedere con mio padre rigido nel suo vestito scuro, mi sentivo a posto come fossi stata Grace Kelly, niente di meno. E dunque recitavo bene la parte che mi ero assegnata guardando quella navata che adesso è tanto che non si fa vedere più. E l’inginocchiatoio, l’altare quello prima del concilio, il rito pure e anche padre Arcangelo Tonini, tutto sembrava perfetto. Ci fu solo una sbavatura al copione impostato quando due signore amiche di mia suocera, interruppero l’uscita solenne per farmi, per prime, gli auguri in mezzo alla chiesa. E poi tutto il resto, riso compreso, e anche un giro con la Dino Ferrari che un amico di lui aveva portato per pavoneggiarsi della macchina e della nuova fidanzata. Il freddo del Lunedì dell’Angelo non lo sentii tanto, forse era l’emozione, l’attenzione a non stropicciare quel capolavoro tra il rigido e il frusciante. Ora quel vestito sta piegato in una scatola nel ripiano alto dell’armadio, un poco ingiallito e tanto piccolo che non so spiegarmi di come ci sono entrata dentro.

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