La casa archivio di cose passate, In cornice

Quando faccio una lussuosa colazione al bar che ancora mi fornisce panino e un giornale da leggere, allora, se guardo fuori dalla vetrina la vedo, la casa più vecchia della mia vita, vedo le finestre chiuse che non si aprono mai perché anche quella casa è morta per gran parte e in mano ad altri anche se li conosco. Vedo tutti gli avvenimenti che ciascuna di quelle finestre hanno svelato, alcuni li ho già raccontati: l’alluvione del Po e i materassi buttati giù, l’arrivo del vescovo dalla barba bianca, in una macchina scoperta, benedicente come il Papa. Altri erano più intimi. Ricordo, ad esempio, la luce che entrava nel camerino di prova dove mia madre metteva indosso i suoi manufatti. Un armadio e niente di più. Alla figlia, riccioli biondi, somministrava cure estetiche più che abbracci, coroncine di pannolenci più che bacetti, promesse di pose fotografiche più che sostegni. Coltivava in me quel suo gusto estetico che la caratterizzava come segno di una ricercata nobiltà e distinzione. Dunque neppure là ero stata felice, neppure a provare il cappottino rosa con le finiture di velluto. Non in quella casa archivio di cose passate, di giochi coi maschi vicini di abitazione, quella casa di scale che si rincorrevano, di salite buie, di granai senza fine, di esplorazioni senza permesso e senza rimprovero. Di infiniti sottotetti dalle leggende raccontate di gente nascosta durante la guerra.

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