Accabadora

Questa storia forte e struggente è ambientata in Sardegna negli anni Cinquanta. La quarta figlia della vedova Teresa Listru, una bambina intelligente e infelice di nome Maria, viene adottata dalla sarta benestante Bonaria Urrai, che non ha potuto avere figli, diventando così una “figlia dell’anima” della donna, che dal momento in cui aveva sorpreso la piccola a rubare una manciata di ciliegie in un negozio, aveva provato per lei un profondo affetto e il desiderio di  tenerla con sè. “Fillus de anima. E’ così che chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell’altra.”

L’anziana, silenziosa e sempre vestita di nero, offre a Maria una casa, un’istruzione, un affetto a volte rude e di poche parole, tenendola però all’oscuro di un segreto che tutto il paese sa: a volte, di notte, quando è chiamata e solo quando è l’interessato a farlo, perché gravemente ammalato e senza speranza, Bonaria gli porta una morte pietosa. Il suo è un gesto d’amore, quasi fosse l’ultima madre che aiuta a partire da questo mondo: è l’accabadora, quella che finisce, che porta a termine. Quando Maria, informata dall’amico d’infanzia Andrìa, verrà a sapere il vero motivo delle uscite notturne della donna, proverà disgusto e rabbia e deciderà di andarsene.

Il romanzo di Michela Murgia, che ha avuto molti premi, tra cui il Campiello nel 2010, è scritto con una lingua essenziale ma profonda e intensa, tanto che ogni frase sembra scavata nell’anima. Il paese sardo di Soreni, inventato dall’autrice ma molto reale e pulsante, è l’emblema di un mondo a parte che vive delle sue regole, dei suoi divieti, delle sue usanze che assumono un valore quasi magico e ancestrale, e anche il tema delicato dell’eutanasia viene trattato con grandissimo rispetto e una consapevolezza che ha tutte le caratteristiche di una fede profonda e incrollabile. Le figure delle due donne protagoniste, la vecchia e la ragazzina, pur rappresentando mondi diversi e avendo una ben differente concezione della vita  e dei suoi misteri, sembrano quasi frutto di uno stesso ramo, in cui si perde il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, perché il giudizio finale non spetta agli uomini.

“- Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.

Bonaria raccolse lo scialle che aveva lasciato cadere sulla sedia e cominciò a piegarlo con gesti lenti, consapevole che quella era l’unica cosa che poteva mettere in ordine.”

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