Dove non mi hai portata, la lettura

Maria Grazia Calandrone nel 1965, quando era una bimba di pochi mesi, è stata trovata a Roma, all’ingresso di Villa Borghese, sola su una coperta. Pochi giorni dopo è apparsa sul quotidiano l’Unità una lettera in cui i genitori dichiaravano che, impossibilitati ad allevarla e a vivere insieme a lei, avevano deciso di affidarla ad altri prima di uccidersi gettandosi nel Tevere. All’epoca naturalmente questa vicenda angosciosa aveva fatto molto scalpore, soprattutto dopo che il cadavere della madre fu ritrovato nel fiume, mentre ufficialmente quello del padre non fu mai ripescato. La bimba fu presto adottata dalla famiglia Calandrone e una volta adulta, madre a sua volta, ha deciso di indagare sulla vita di quei genitori biologici che prima di togliersi la vita si sono assicurati che lei stesse bene, abbandonandola in un luogo di passaggio molto frequentato affinché fosse trovata e messa in salvo il prima possibile.

Basandosi sui pochi documenti in suo possesso, sugli articoli dei giornali di quel tempo, sulle testimonianze di coloro che li avevano conosciuti o che ricordavano qualcosa di loro, la scrittrice ha tentato di ricostruire le sue radici, si è recata sui luoghi in cui il padre e la madre sono cresciuti e vissuti, intrecciando i fatti reali con quello che provava nell’apprenderli, con quello che immaginava e “sentiva” riguardo sensazioni, paure, emozioni, passione e disperazione. Ha così messo insieme la vicenda della madre Lucia in Molise, a Palata, abbastanza tranquilla e normale fino a quando però è stata costretta dai genitori a sposare il rozzo Luigi, che aveva un podere accanto al loro, che la costringe a una vita di privazioni, botte e umiliazioni, senza mai tra l’altro “consumare il matrimonio”. Dopo sette anni d’inferno, Lucia si innamora di Giuseppe Di Pietro, manovale reduce dall’Africa, che è molto più vecchio di lei ed è sposato con cinque figli: resta incinta e, denunciata di adulterio dal marito, fugge con Giuseppe a Milano, dove darà alla luce Maria Grazia.

Per la coppia l’esistenza è difficile e quando lui non riesce a trovare lavoro nonostante migliaia di tentativi, decidono di andare a Roma e farla finita.

La Calandrone non prova risentimento per la madre e il padre, non ha mai un pensiero di accusa, di recriminazione: cerca disperatamente di far rivivere le loro vite indagando anche sui più piccoli dettagli con molto amore e molta gratitudine per il fatto comunque di avere scelto per lei la vita. Se mai esiste una colpa, è delle istituzioni, perché in quegli anni (e non si parla di secoli fa) le donne erano solo merce di scambio e non avevano alcun diritto, neppure a fronte di situazioni familiari in cui la violenza e le minacce e la crudeltà erano somministrate ogni giorno insieme al poco pane quotidiano. Oltre all’indagine capillare sulla vita di Lucia e Giuseppe, sono molto belle le descrizioni brevi e altamente liriche di luoghi ed emozioni; dispiace molto, in un romanzo di questo genere, la lunga parentesi storica sulla guerra d’Africa, con tanto di banalità come nominare Mussolini “il mascellone” e cose del genere che si addicono più alla satira, seppur trita e ritrita, o di raccontare la vicenda di Indro Montanelli e la piccola eritrea, che in questo contesto è veramente fuori luogo.