Le figlie degli altri

"C’è molto da ammirare in questo libro – la precisione, il tatto, la sensibilità umana, il grandissimo fascino – ma quello che spicca in particolar modo è l’intelligente professore di Fisiologia di Harvard che è (veramente) il suo eroe.” Questo è quello che scrisse Philip Roth del romanzo “Le figlie degli altri” quando venne pubblicato, nel 1973. L’autore, Richard Stern, insegnante di Letteratura inglese all’Università di Chicago, era un suo amico fin dal 1956 e insieme avevano parlato di scrittori, di libri, di letteratura e di spunti per racconti e romanzi  per anni e anni, fino alla morte di Stern nel 2013.

La storia è ambientata ad Harvard negli anni Settanta: il professor Merriwether, medico e insegnante universitario padre di quattro amatissimi figli, di cui due ancora piccoli, si innamora quasi per una sorta di noia di una studentessa, Cynthia. La ragazza è ricca, ambiziosa, intellettualmente vivace, sa bene quello che vuole ed è disposta a quasi tutto per ottenerlo; il professore, lusingato dal tenace corteggiamento, inizia a fare i conti con quello che sa di dover perdere irrimediabilmente: la stima dei figli, l’affetto della moglie Sarah che soffre e alterna rancore e nostalgia, la sua bella e vecchia casa in cui avrebbe voluto invecchiare. La figura della moglie è ben delineata in ogni su piega: è un personaggio che nel crollo del suo matrimonio riesce a fare un’analisi del suo rapporto col marito e di se stessa senza mai cadere nel patetico e nell’autocommiserazione. 

Questo romanzo, oltre alla storia di un uomo diviso fra la passione che lo riporta a una mai sopita giovinezza e l’attaccamento a un mondo sicuro e fedele che aveva fatto suo da tanto tempo, è la storia di un’intera epoca, è una fotografia perfetta e senza filtri dell’America di quegli anni. E’ l’America raccontata da Richard Yates e dallo stesso Roth, è il momento in cui il grande sogno e i grandi ideali cominciano a mostrare le loro crepe e il loro vacillare e ogni vicenda umana si trova immersa nella disillusione, nell’incertezza. 

La prosa, nell’ottima traduzione di Vincenzo Mantovani, è originale e presenta un linguaggio molto denso e colto, anche se mai stucchevole, perché interviene spesso quella vena autoironica che rende le pagine piacevoli e altamente scorrevoli. “Le figlie degli altri” è un grande romanzo di uno scrittore che merita di essere riscoperto, uno dei pochi che riesce a creare in poche righe una sfumatura di pensiero, il clima che regna in una stanza, l’analisi a volte spietata, a volte tenera, dei sentimenti che sconvolgono la vita.

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