Joe, Metacarpi del 12 novembre

Nel film “La guerra del cittadino Joe” del 1970, regia di John Avildsen, il protagonista, un operaio edile razzista e reazionario, impugna a un certo punto il fucile per sterminare quanto di più estraneo a lui offriva l’America del tempo: la cultura hippy, sentita come diversità assoluta, dunque, come minaccia. Cinquant’anni dopo, il voto ha dimostrato che l’America razzista, chiusa e impaurita, pur ritrovandosi come presidente uno che si chiama Joe, è più viva e radicata che mai fra gli operai delle grandi fabbriche come fra gli abitanti delle sterminate aree rurali del Midwest, conservatori e isolazionisti. E non bastano, a metterla in sordina, le rumorose discese in campo di intellettuali, attori e cantanti delle due coste. La frattura tra élite e popolo sulla quale Donald Trump ha fondato le proprie fortune è sempre lì a ricordarci, anche in Italia, quello che scriveva Gramsci: il popolo sente, ma non sempre sa, mentre l’intellettuale sa, ma non sempre si sforza di sentire. E senza connessione sentimentale con il popolo, gli intellettuali diventano casta e il popolo tanti cittadini Joe.

L'accesso è riservato agli Abbonati

Se sei già abbonato, accedi per vedere l'articolo completo

Accedi

Accesso completo al sito, più l'
abbonamento digitale annuale

Vi permette di accedere a tutti i contenuti web di VOCE.it e di ricevere la newsletter quotidiana VoceCittà con le notizie del giorno, Voce settimanale digitale e Voce mensile digitale di approfondimento, direttamente al vostro indirizzo mail. Costo Annuo 29€ Abbonati