Sparizioni, Metacarpi del 16 aprile

Qualcuno ha fatto circolare sul web il proprio commosso addio alla generazione dei nati fra il 1925 e il 1940, portata via dal virus nelle famiglie e soprattutto nelle strutture che, paradossalmente, vengono chiamate “protette”. È la generazione di quanti, bambini, adolescenti o ragazzi durante l’ultima guerra, hanno letteralmente rimesso in piedi l’Italia dalle macerie. Sono quelli del Paese in bianco e nero, del neorealismo e delle biciclette, dei “visi segnati da rughe profonde”, impresse da “giornate passate sotto il sole cocente o il freddo pungente”, delle “...mani che hanno impastato cemento, piegato ferro, in canottiera e cappello di carta da giornale”, portando in famiglia la Lambretta e poi la Seicento, il frigorifero Atlantic, il televisore Marelli e la cucina americana. È la generazione che, sacrificandosi nel lavoro, ha permesso di studiare a quelle successive, delegandole al riscatto dalle privazioni sofferte. Con lei, se ne va la memoria eroica del paese. È nell’ordine delle cose, si dirà. Ma ci si sente anche meno saggi e un po’ più soli.

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