Animal house, Micromega

Leggo da qualche parte che il numero di animali domestici e da compagnia detenuti a titolo proprietario dagli italiani ha raggiunto livelli record. Praticamente in una casa su due, o anche di più, c’è un qualche pet da accarezzare e di cui raccogliere, per lo più con gridolini metà scandalizzati e metà ilari, le deiezioni. Il dato numerico estrinseco sugli ospiti pelosi, piumati o squamati parrebbe costituire uno dei pochi motivi di compiacimento di tempi, quelli che viviamo, che fra epidemie, guerre e siccità sembrano venuti fuori dalla penna annoiata e stantia di uno sceneggiatore di film catastrofici a fine carriera. 

In effetti analisti anche molto accreditati hanno subito sottolineato la virtuosità di questa diffusa (e teoricamente anti-egoistica) zoofilia: gatti e cani, ma volendo anche cocorite e criceti, o iguane, costituiscono per grandi e piccini ora un motivo di responsabilizzazione, ora una presenza di conforto nelle giornate buie, senza considerare i casi più gravi ed estremi in cui la presenza dell’animale domestico va letteralmente a colmare carenze affettive croniche, o lutti. Quindi lungi dal sottoscritto esecrare il dato e il fenomeno massivo: non c’è dubbio che gli italiani, nel passare da conigli e galline (posseduti in promiscuità in vista della macellazione e del pranzo domenicale) ai cuccioli profumati e coccolati (della cui salute ci si preoccupa, almeno, quanto di quella del congiunto, e che ascendono, a tutti gli effetti, al rango di membri del nucleo familiare) abbiano percorso uno dei principali sentieri della cosiddetta modernizzazione. 

Certo, se volessi incupire l’incauto lettore potrei indugiare sulle ipocrisie dell’occhio che non vede cuore che non duole: poiché mentre alleviamo in casa quadrupedi da compagnia di media perspicacia e sensibilità, trasformandoli nei principi della magione, o in potenziali premi Nobel per la fisica (“mamma mia, c’ha un’intelligenza!”), ci cibiamo poi quotidianamente di carni di derivazione animale che provengono da specie, come il maiale, con quoziente intellettivo anche maggiore, la cui unica colpa è costituita dall’essere ampiamente edibili e gustose, e soprattutto dal non essere in grado, come nelle fantasie di celebri cartoni animati, di sensibilizzare sulla propria causa l’opinione pubblica, continuando a farsi macellare di nascosto nei mattatoi. 

Ma qui preferisco soffermarmi su un altro aspetto, meno grave e imbarazzante, pure presente, della questione. Perché se si va a vedere la genesi dei numeri biblici sulle bestiole da compagnia domiciliate dagli italiani in tempi recenti, ci si accorge che il Covid, e più in generale le limitazioni e penurie degli ultimi anni, hanno costituito un pesante viatico del fenomeno, indirizzando sulla strada del benessere con animali e delle lauree in etologia sul campo frotte di individui e nuclei familiari in precedenza incerti anche sulle differenze fra un mammifero e un uccello. 

Ecco, senza voler fare il guastafeste, nel ribadire l’encomio per questo salto evolutivo della società italiana, nonché pregustando anche l’indotto etico e di umore positivo che deriverà dalla capillare presenza di amici a quattro (o due) zampe nei cortili e nelle abitazioni del paese (niente più truffe ed evasioni fiscali, fine dei litigi per parcheggi, eccetera), mi tocca esplicitare un sospetto, che diventa una certezza nel momento stesso in cui guardo a casa mia. Dove, dopo perentori e inascoltati vaniloqui da parte del sottoscritto sul fatto che, passata a miglior vita la cagnolina Matilda (2003-2018), nessun altro animale avrebbe mai varcato la soglia dell’ingresso principale, in piena pandemia, e in mezzo a uno dei vari lockdown capitatici fra capo e collo, è sbarcata Amelie, gatta siberiana (vabbè, è perché è una razza anallergica, non c’entra Orsini), direttamente proveniente da una cucciolata di Vicenza. 

Amelie è, o meglio, è diventata una felina sonnacchiosa e coccolosa (questo tipo di desinenza, in -oso e -osa, è molto gettonato se si parla di animali da affezione), sublimemente propensa ai miagolii discreti e pietistici quando ha fame, avvezza a fare le fusa anche ai presentatori televisivi di prima serata Rai appena appaiono sullo schermo, giocherellona a giorni alterni e sempre in forme compatibili con i tempi di vita, e le piccole-grandi nevrosi, del consesso familiare (quando capisce che tira brutta aria si apparta e inizia a espletare le funzioni fondamentali: mangiare, bere, leccarsi, dormire, e soprattutto evacuare). 

Si direbbe una gatta felice, Amelie, vezzeggiata, attenzionata dal punto di vista medico-sanitario come un Elon Musk lungocrinito, nutrita h24 (basta che chieda, e nessuno va oltre il simpatico buffetto di riprovazione per l’ingordigia, con parole che temo lei non capisca), in generale benvoluta. Peccato che facendo un giro in rete (ma sarebbe bastato dare un’occhiata alla muscolatura e alla complessione) si scopra che questo tipo di gatto (più correttamente, la variante selvatica da cui è derivata la selezione di razza) avrebbe bisogno di correre maratone quotidiane, di vivere come minimo in freezer e di cacciare con la cruenta spregiudicatezza di una tigre mangiatrice di uomini. Tutte cose piuttosto distanti ed eccentriche rispetto al ménage realmente condotto dalla simpatica felina nella padana abitazione fossolese. 

Ora, vivo sul pianeta Terra da più di cinquant’anni, e so bene che il discorso sugli istinti, e sulla necessità di accompagnarli e compiacerli, ci porterebbe alla deriva: come nessun cane è naturalmente predisposto a indossare una pettorina, o, che so, nessun cavallo nasce per essere ferrato e saltare ostacoli, nemmeno il sapiens sarebbe stato foggiato dalle leggi darwiniane per stare in coda con la macchina, farsi dei selfie e giocare a padel. Diciamo che anche in zoologia ci si adegua.

Ciò non toglie, anzi conferma, che la domesticazione, qualsiasi forma di domesticazione, anche la più lieve e soccorrevole, o, appunto, quella che la nostra specie ha operato su se stessa, nasconde forzature e violenze rispetto alla biologia. Basta solo esserne consapevoli, e capire, senza sensi di colpa ma anche al netto di infingimenti e doppiezze, che se negli anni delle crisi multiple, delle impreviste solitudini e delle nuove povertà, gli italiani hanno trasformato le rispettive residenze in simpatici parchi natura c’entra sicuramente il Konrad Lorenz, o la piccola Heidi, che è dentro di loro (applausi), ma c’entra anche, eccome, l’ansia disordinata, e un po’ autocentrata, che rende gli animali strumenti più che soggetti, di trovarsi soli, e senza un corpo da accarezzare, di fronte al buio, tutto il buio, che incombe e avanza.