Ciclisti d’assalto

Nella Storia, quella con la S maiuscola, si sa, non è buona norma distinguere buoni e cattivi. Non perché sia impossibile separare le azioni probe dai delitti, ci mancherebbe, ma perché nove volte su dieci (anzi, già che ci siamo, dieci su dieci) quel popolo o quel gruppo politico, o anche quel singolo individuo, al quale saremmo stati lì lì per concedere l’aureola e il pieno attestato di bontà, ci delude, comportandosi come il peggiore dei suoi aguzzini o persecutori.

Se la legge del manicheismo, giusti di qua, ingiusti di là, non vale per la grande Storia, figuriamoci se è possibile fare certe distinzioni da lavagna scolastica – “i buoni” versus “i cattivi” – nella vita quotidiana e corrente. Si rischiano solo figuracce e cantonate, si rischiano.

Prendiamo, perché è poi di questo che alla fine voglio parlare, i ciclisti. L’insieme, intendo, delle persone che utilizzano velocipedi a spinta umana contraddistinti da due ruote e un manubrio. Tutti, nella nostra breve ma intensa esistenza, siamo stati, e, all’occasione, continuiamo a essere ciclisti. E sappiamo di quanto sudore e pericolo grondi l’alloro dei biker: perennemente esposti alle gibbosità e agli imprevisti della sede stradale, sono – notoriamente – le vittime preferite di automobilisti ora adrenalinici ora distratti. Tanto che, per rispetto della legalità ma anche, alla base, per mero istinto di sopravvivenza, soprattutto nelle grandi città e nelle aree ad alta densità di traffico, i ciclisti vanno ormai bardati come centurioni romani, e sfilano corazzati in mezzo a teorie di quattroruote che vorrebbero loro nuocere, ma che devono prendere atto di difese e protezioni degne dei combattenti Ninja (casco, corpetto, ginocchiere, eccetera eccetera).

Il ciclista, nell’italietta del Sorpasso, della motorizzazione di massa, del mito laico dell’Autostrada del Sole, è stato, statisticamente categoria bistrattata. Un reperto del passato, a metterla bene, uno sfaccendato, ozioso, pieno di tempo libero sottratto parassitariamente alle classi produttrici, nella peggiore, ma anche più frequente delle ipotesi. Comunque da punire, nell’ottica dell’automobilista standard, con colpi di clacson a tradimento, con accelerazioni repentine foriere di mortiferi scarichi gassosi, oppure – il non plus ultra – con superamenti a pelo che, senza costituire dolo, dovrebbero determinare il lento deragliamento fuori dalla sede stradale del malcapitato mulinatore di pedali.

Non so se l’avete notato, però: da quando le nostre amene cittadine si sono popolate di spazi e contrassegni a tutela e valorizzazione dei ciclisti, la mentalità di questi ultimi si è andata lentamente modificando, quasi come se fosse stata indotta e trasformata da una pressione selettiva darwiniana. Traduco, e mi scuso per la semplificazione: le giovani generazioni, quelle dei biciclettanti protetti da piste, corsie riservate, diritti di transito altrimenti negati, e così via, hanno, tendenzialmente, un rapporto con il mezzo a due ruote simile a quello degli aurighi romani con le bighe nella corsa conclusiva di Ben Hur. A norma, non lasciano nulla di intentato per stupefare la folla che assiste – non pagante – alle loro circonvoluzioni tra le lamiere del traffico e non lesinano soperchierie di ogni risma ai danni delle categorie più deboli, dai semplici pedoni alle mamme con passeggino.

D’altra parte la mutazione ciclo-antropologica degli ultimi anni è ben ravvisabile nel contesto delle attività sportive amatoriali: un tempo incontrare un nugolo di praticanti la bicicletta domenicale era una festa per tutta la famiglia alloggiata nell’abitacolo dell’auto, con piccole possibilità anche di innocuo scherno (“Vai Gimondi!”, che poi è diventato con il tempo “Forza Moser!”). Adesso, a canzonare un qualche membro dei grupponi ciclistici che popolano le nostre salite nei giorni di festa c’è da prendere delle brutte parole e magari un cartone alla prima area di sosta, senza considerare che se e quando la sede stradale è occupata, in longitudine, dai “girini” della domenica ti conviene chiedere l’intervento dell’elisoccorso, perché di lì, con l’auto, non si passa.

Dura e implacabile lezione, quella fornita dagli amanti del pedale: sempre e comunque, finché si è razza protetta, è tutto un parlare di diritti (propri) e di tolleranza (altrui), appena si sale di grado – non dico si va al potere – improvvisamente tutti i bei discorsi sul rispetto e la convivenza vanno a farsi benedire. Ovviamente non è questione di questa piuttosto che di quest’altra categoria. La ruota gira, è proprio il caso di dirlo, e i reietti di ieri spesso spadroneggiano nell’oggi. Attualmente, per tornare alle nostre simpatiche giungle d’asfalto, sotto tiro ci sono i pedoni, vittime elettive dei pirati di ogni risma. Ma posso garantire che è solo questione di tempo. L’altro giorno, sotto i portici di Piazza Martiri, un passeggiatore pettinato come Michael Jackson nel video con gli zombie ma con la stazza di Primo Carnera all’apice della carriera mi ha praticamente asportato una spalla senza anestesia. Ero finito nella sua traiettoria. Mi ha anche detto qualcosa, facendo capire che la prossima volta, se lo ostacolo, mi passa sopra come un trattore. Che poi, a pensarci bene, considerando le andature medie dei nuovi pedoni e ciclisti e, per contrasto, la paciosa lentezza delle macchine agricole, più che una minaccia è quasi una rassicurazione.

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