Come si fa?, Micromega

Come si fa? Come si fa a sopportare il carico di sofferenze altrui in scenari di guerra come quello dell’Ucraina attuale, o piuttosto della Siria, o dello Yemen (volendo, potrei proseguire, con l’elenco dei conflitti attivi nel mondo, fino al termine dell’articolo)? 

La mia domanda è letterale, non retorica, e quindi la risposta non è quella – altrettanto retorica – secondo la quale tale fardello di dolore non sarebbe sostenibile, non è possibile vivere in un mondo così, eccetera eccetera, perché poi alla fine, chi è senza peccato scagli la prima pietra, tutti, ciascuno a suo modo, continuiamo a dare corso alle rispettive abitudini, più accigliati e pensosi, certo, ma continuiamo, e se necessario ci irritiamo per una coda automobilistica o per l’uscita della nostra squadra dalla Champions League, come prima della guerra o come se non ci fosse la guerra.

E allora rifaccio la domanda: come si fa, oggi, ieri, domani, a reggere il macigno dei morti, degli invalidi, dei bambini sotto le macerie o nei bunker per settimane, dei profughi, delle vite spezzate o rovinate? Come è possibile, al cospetto delle immagini e delle voci che ci arrivano dai teatri del conflitto (dei conflitti, al plurale), alzarsi al suono della sveglia, lavorare, cucinare, perfino scherzare, e non, invece, rimanere afoni e attoniti, schiacciati dal senso di impotenza e di ingiustizia che promana da faccende troppo grosse per essere inserite e comprese all’interno e all’insegna di una qualche teodicea?

Secondo consolidata interpretazione – non priva, sia subito chiaro, di una qualche fondatezza – la differenza di potenziale emotivo ed empatico delle guerre, per noi occidentali come per tutti i popoli del pianeta, risiederebbe nella distanza. Conflitti lontani di nazioni sconosciute, difficili da collocare sul planisfero e con usi, costumi e idiomi eccentrici, estranei, uguale altissima capacità di remotizzare e rimuovere (il caso dello Yemen, appunto, o dei tanti Afghanistan). Conflitto vicino, nello spazio, nella testa e nel cuore, a carico di comunità che, per mille motivi, senti molto simili alla tua, uguale elevata compassione. C’è del vero, inutile fare gli ipocriti.

Come la mettiamo, però, a questo punto, con l’Ucraina? Per quale motivo, dopo i giorni della perturbazione e dello smarrimento (ma non ci credo, in Ucraina, è un grande paese, è un paese europeo, ci sono anche le centrali nucleari, non è possibile), perché, dicevo, dopo l’afasia e lo stordimento iniziali, adesso, a fronte fra l’altro della escalation della guerra, siamo entrati, come si dice, “nell’ordine delle idee”, e il conflitto ci tocca, ci preoccupa, ci indigna, sì, ma alla fine abbiamo ancora lo stomaco non refrattario alla gioconda colazione al bar e gli occhi sufficientemente adusi all’incantamento per andare a vedere, al cinema, appena uscito, The Batman?

La verità, credo, è che facciamo un sacco di cose, sacrosante, che concepiamo come finalizzate a saperne di più, a essere più vicini ai nostri consimili sofferenti, a non voltarci dall’altra parte, quindi virtuose (soggettivamente e oggettivamente virtuose) ma che, quasi rispondendo a un silente e inconsapevole spirito di sopravvivenza psicologica, ci rendono contemporaneamente, in verità, più sopportabile e superabile il baratro etico della inutile e assurda sofferenza degli innocenti.

Leggiamo libri, compulsiamo riviste specializzate, non ci perdiamo una riga o un minuto di tele-radiotrasmissione sull’invasione russa, ripetiamo liturgicamente che prima di tutto bisogna conoscere, e sulla base delle conoscenze, per quanto posticce e un po’ empiriche, poi cominciamo a discutere, a ragionare, ad attivarci, anche in pubblico, abbozzando ricostruzioni, previsioni, soluzioni, tutto sacrosanto e provvidenziale, ci mancherebbe, molto meglio che accapigliarsi per partito preso pensando che gli ucraini siano dei feroci nazionalisti e Putin il difensore della pace (o viceversa). Però, c’è un però, più approfondiamo e sottilizziamo, con propositi benevoli e commendevoli, più, per così dire, intellettualizziamo, rendiamo cerebrale e asettico ciò che prima sentivamo di cuore e di pancia.

È un doppio movimento, contraddittorio e inscindibile, quello che produciamo nel momento in cui “ci prendiamo cura” di questioni all’apparenza insopportabili come le crisi umanitarie. Da una parte cerchiamo di essere all’altezza, informandoci, preoccupandoci e attivandoci, rendendole parte effettiva delle nostre agende di vita. Dall’altro lato, proprio per questo, come il chirurgo o il medico che per fare bene il proprio lavoro devono essere competenti e solleciti ma al contempo marcare la giusta distanza dai corpi infermi, più ci avviciniamo alla “cosa” (la morte, il dolore, la guerra) più la raffreddiamo e normalizziamo. 

Due esempi, al volo, per provare a capirsi. Il primo è quello della cartografia, sì, le carte geografiche che ormai mastichiamo con inusitata dimestichezza: le carte politiche e fisiche dell’Ucraina, e dell’Ucraina in Europa, prima di tutto, con i confini o le vie fluviali, poi le carte con i fronti di attacco dei Russi, le carte sulle profuganze, carte di ogni tipo, che campeggiano negli speciali televisivi come nelle pagine dei quotidiani, non c’è bisogno di essere abbonati ai bollettini dello Stato maggiore italiano o a riviste di geopolitica. Per carità, le mappe sono uno strumento indispensabile di conoscenza e sensibilizzazione (fosse per me a scuola si dovrebbero fare due materie, Geografia e Storia, Spazio e Tempo, e dentro tutto il resto, dal Latino alla Matematica), però alla lunga, di carta in carta, se parliamo di guerre, esse spersonalizzano, anestetizzano, veicolano una visione strutturalista, inerziale, dis-umana, o meglio meta-umana, dei fatti. Pensiamo di usarle per immergerci nel dolore altrui, in verità così galleggiamo. 

E lo stesso accade con lo strumento apparentemente più congeniale a smuovere le coscienze, a superare l’indifferenza, le immagini, immagini statiche o in movimento dai luoghi martirizzati, ebbene, anche le foto-simbolo, o le sequenze che fanno indignare, una volta reiterate e standardizzate dalla macchina della comunicazione, determinano quell’effetto placebo lì, quello per cui pensiamo di contagiarci con la sofferenza degli altri per essere al loro fianco, ma in verità stiamo assumendo un farmaco potentemente immunizzante (chi ricorda più i morti in carne e ossa nel momento in cui vede per l’ennesima volta il video del crollo delle Torri gemelle di New York?).

Non c’è via d’uscita da questa antinomia. Quando patiamo davvero per quanto accade nel mondo grande e terribile, allora ci diamo una smossa, cerchiamo di conoscere e capire, e agire, ma più avanziamo nella comprensione e prossimità alle cose, meno siamo esposti alle scosse del loro orrore, quasi mitridatizzati.

E allora cambia la domanda da cui sono partito. Essa non è più “come si fa a sopportare il dolore altrui?” (per quello sembriamo, purtroppo o per fortuna, biologicamente e/o culturalmente, attrezzati), bensì, esattamente all’opposto, “ma come facciamo, malgrado tutto, a sentire ancora le pene dei nostri simili?”. Ecco, credo sia nella impossibilità di dare una risposta razionale a questo secondo interrogativo che si annida il misterioso valore del legno altrimenti storto dell’umanità; e che trovano riparo, per quanto può valere e interessare, anche le mie personali, residue, speranze di un domani, non dico migliore, ma meno indecente.