Darwin all’autogrill

Domenica ventiquattro aprile. Sono in autogrill con la famiglia. Meteo da lupi, per cui la gitarella fuori porta si traduce nella moltiplicazione di occasioni per ingannare il tempo. Compreso il self service da autostrada.

Non siamo gli unici, ad aver ripiegato, in viaggio, sulla ristorazione on the road. A dirla tutta sembrerebbe che l’intera Italia del nord si sia data appuntamento nella nostra area di servizio. Solo per arrivare all’agognato vassoio mi sorbisco un quarto d’ora di fila. Ogni passaggio del rito compositivo del self (tovaglietta, posate, bicchiere, eccetera) richiede quei tre-quattro minuti che trasformano l’avvicinamento al banco dei piatti caldi in una piccola via crucis.

Finalmente, dopo una buona mezz’ora di rituali yoga che servono a temperare il crescente nervosismo (peraltro smascherato da uno spasmo facciale che vorrebbe pateticamente simulare un sorriso in favore degli astanti), dopo una buona mezz’ora, dicevo, mi trovo quasi dirimpetto all’addetto alla distribuzione dei primi (lasagne, riso e maccheroni, come da tradizione). Fra me e il pasto, concupito a questo punto ben a prescindere dalla fame reale, c’è solo un piccolo nucleo familiare – mamma, papà, figlio in età primo-scolare – che non dovrebbe impiegare molto tempo a ordinare.

Ad un certo punto il pargolo, con il suo vassoietto ancora disadorno, fissa negli occhi il padre, e con un tono a metà fra il sorpreso e il lamentoso esclama un “Il bere!” che di per sé potrebbe voler dire molte cose. In quella circostanza, però, il significato non è equivoco: il bambino ha dimenticato di fare rifornimento all’altezza del frigorifero delle bevande, notoriamente piazzato, nei self service, prima delle cibarie solide. Il padre (che porta due baffi arrotolati da dagherrotipo ottocentesco, ha un collo per il quale l’aggettivo “taurino” è riduttivo e, soprattutto, è istoriato di tatuaggi che richiamano una certa qual idea di romanità, imperiale e mussoliniana), il padre, dicevo, lo guarda per qualche secondo, si carica come una dinamo aumentando il flusso sanguigno nelle tempie e infine sbotta: “Concentrazione, ci vuole, concentrazione, devi stare collegato!” (risparmio la trascrizione foneticamente rispettosa, che cercherebbe inutilmente di rendere un accento da basso Lazio, non capitolino).

Il volume della voce del genitore sembra seguire un’inerzia ascendente programmata: “Se non stai collegato, se te ne stai con la testa per aria, ti succedono queste cose!”. Io vorrei anche intervenire, dire che in fondo il “ragazzetto” (lo chiamerei così, per stabilire un contatto etnico con l’energumeno) in fondo ha dimenticato solo una bottiglietta d’acqua, o magari una coca-cola, anzi, già che ci siamo la vado a prendere io, naturale o gassata? Il climax dell’ominide con epidermiche simpatie fasciste, però, non si arresta, e non mi dà spazio, fermo restando che il mio intercalare, per quello che ne so e posso intuire, rischia di essere salutato con un colpo di clava o una mossa da lottatore di sumo.

“Te l’ho già detto – prosegue, mentre il bambino si va rimpicciolendo a dimensioni sub-atomiche – ogni volta che ti distrai, gli altri ne possono approfittare, ti passano davanti. È chiaro? Ti fottono!”. Al “ti fottono”, sia per la sua gravità, sia per la sua relativa rarità al di fuori dei doppiaggi dei polizieschi americani, obiettivamente si crea una situazione di imbarazzato silenzio. A quel punto io immagino (spero) che questa specie di Mangiafuoco che, con il suo nucleo parentale, ha incrociato la mia già non esaltante giornata uggiosa, resosi conto della pesantezza e abnormità dell’espressione, possa recedere dall’esibizione stile Full Metal Jacket, categoria “sergente cazzuto”. Invece, forte dell’attenzione guadagnata sul campo, mentre il figlio, con un’abile distrazione spazio-temporale, si è probabilmente recato, in ispirito, nelle foreste della Nuova Guinea (lo si capisce dallo sguardo, che non è più atterrito, ma assente), il Barbablù de noantri ci infila dentro anche il saggio di pedagogia empirica, citando la gazzella e il leone (un classico), l’attenzione come primo fattore competitivo in natura e – gran finale – il fatto che i più deboli o superficiali, in ogni ambito della vita, soccombono.

“Soccombono” lo pronuncia con una pienezza, una voluttà, un compiacimento, che verrebbe da dirgli che se vuole e lo fa stare bene, per me, può anche ripeterlo. Con il fatale verbo la trucida rappresentazione termina, anche perché il monello – ritornato con la mente sul pianeta terra – ha cominciato a piangere, smuovendo l’attenzione di una virago, in precedenza ampiamente messaggiante, che dovrebbe corrispondere a sua madre. Il nerboruto, ebbro della lezione di educazione fascista elargita a una platea di flaccidi padri in attesa di due maccheroni al ragù, si liscia il baffo passatista. Io, non più teso, mi dico che non tutto il male arriva per nuocere. In fondo, lo spaccalegna italico, nell’esaltare la lotta per la vita ha confermato la giustezza delle teorie darwiniane. A guardarlo e, soprattutto, ascoltarlo si estinguono gli ultimi dubbi. Sì, è una certezza, veniamo proprio dalle scimmie.

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