Il calcio? Alla radio! , Micromega

Fra le tante cose drammatiche che stanno ammorbando e insanguinando il nostro presente, capita ogni tanto di trovare indizi e notizie di quello che era (e potrebbe essere) un mondo, diciamo, normale, con temi e problemi ordinari e soluzioni, non dico semplici, ma a portata di mano. Come prima della pandemia e della guerra. Parlarne, di tali questioni, da due anni a questa parte, sa di irresponsabilità, o addirittura di mancanza di rispetto (per vittime e sofferenze, in primis). Soprassedere, però, aggirando e omettendo tutto quello che non è Covid e Ucraina, credo ci renda sottilmente complici della quotidiana, medievalissima, danza macabra allestita dal sistema dei grandi media, in cui trionfano lutto, dolore e mancanza di futuro. Questo mese, allora – non senza, si capisce, un malcelato senso di colpa – decido di parlare d’altro.

Per dire che mi ha molto colpito, leggendo un paio di pubblicazioni recenti, fra cui il didascalico ma prezioso Il calcio ha perso di Matteo Spaziante e Franco Vanni (Mondadori), la conferma empirica  e argomentata dell’assunto, apparentemente in odore di etilismo, evocato dal presidente della Juventus Andrea Agnelli nel momento del varo del progetto, poi cestinato/rinviato, della Superlega europea di football, giusto un annetto fa, aprile 2021. Prima di essere travolto, insieme ad altri incauti compagni di cordata, dall’insorgenza sanfedista e popolar-populista dei difensori della tradizione (con alla testa sceicchi e fondi di investimento, soggetti storicamente e notoriamente premurosi dello sport di base e del primato del merito), il giovane, e non sempre perspicace, Agnelli ha avuto modo di sottolineare come il livello di spettacolarità del football odierno e, corrispondentemente, la sua attrattiva, soprattutto verso le giovani generazioni, siano andati progressivamente scemando. 

Lo dico da acclarato e indefesso tifoso bianconero, o per meglio dire, nel gergo del calcio litigato, da “gobbo”: con tutta probabilità nel rilevare tale fenomeno il presidente juventino ha preso spunto prima di tutto da casa propria, e dal calcio geriatrico giocato da qualche anno a questa parte dalla squadra allenata (?) da Massimiliano Allegri. Al netto delle facezie, però, quando Agnelli afferma che gli adolescenti di oggi difficilmente guardano una partita intera di calcio, tutt’al più vanno a cercarsi gli highlights, e se devono guardare un match, parecchie volte, preferiscono assistere ad una sfida online di campioni della PlayStation, egli riporta un dato oggettivo attestato da ricerche serie (e preoccupate) di marketing. 

La questione non sta nel fatto che il calcio sia poco attenzionato; anzi, grazie alla grancassa mediatica, e alle tante articolazioni social, ludiche e finanziarie del gioco del pallone, sicuramente mai come oggi, a livello globale, in tutti i continenti, si è potuto contare su un numero di sedicenti appassionati quale quello attuale. Il problema, anche se la cosa può fa sorridere, sono diventate le partite. Mentre i super campioni globali acchiappano follower, mentre tutto quello che confluisce nel calderone del merchandising continua a fatturare, mentre, insomma, l’indotto tira, contemporaneamente il pubblico, soprattutto quello più in erba, segue sempre meno, in presenza e alla tv, gli eventi sportivi in quanto tali. 

Naturalmente il primo motivo di tale allentamento della passione è costituito dall’eccesso di offerta. Attenzione, però, dicono gli esperti, lo spettacolo calcistico non è tanto inflazionato quantitativamente, piuttosto la domanda comincia a essere annoiata dal calo marginale della qualità della proposta. Per un big match di Champions League che trasmette adrenalina anche a chi non parteggia per le squadre in campo, e per tre-quattro partite della Premier League inglese (la Superlega senza Agnelli, di fatto) che comunque elettrizzano, se non altro per il ritmo e la coreografia, ci sono almeno, ogni settimana, millanta partite teletrasmesse che sembrano un inno a Morfeo, o uno spot per negativo a favore di competizioni più intriganti (come la Nba americana, dove è rutilante anche l’entrata dei giocatori in campo). 

Ecco, a fronte di queste inoppugnabili, per quanto imprevedibili, evidenze – tanto i dati quantitativi sulla fuga degli adolescenti dal calcio live quanto il correlato scadimento delle prestazioni pallonare standard – confesso che mi è scesa la lacrimuccia. Appartengo alla generazione di quelli che, essendo stati adolescenti negli anni Ottanta, cioè nel periodo in cui il campionato italiano era, apoditticamente, “il più bello del mondo” (con Maradona, Platini, Zico, e poi Van Basten e compagnia), pensavano né più né meno che il paradiso equivalesse alla futuribile teletrasmissione di tutto il Bengodi pallonaro che si rivelava, luminoso e colorato, sui campi italiani la domenica pomeriggio, e che a noi, invece, salvo nelle rare occasioni in cui si andava direttamente allo stadio, veniva ingrigito e filtrato dal racconto radiofonico e dalla famigerata “sintesi di una partita di serie A” del tardo pomeriggio festivo.

Quando, all’inizio del decennio successivo, arrivò la notizia della fondazione della nuova prima serie inglese, la Premier League appunto, con turni di campionato distribuiti su tutto il fine settimana, in orari differenziati, e dirette video a go go, a fronte delle perduranti e proletarie restrizioni nostrane, qualcuno pensò si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. La prospettiva di poter vedere, un giorno, la serie A live, tutta o in parte, era qualcosa che trascendeva l’immaginario e il desiderio. Era – chiedo scusa per la secchezza e il cattivo gusto – pura pornografia, eccitante e, a suo modo, imbarazzante.

Poi siamo cresciuti (??), ci siamo diligentemente abbonati alle diverse e variopinte piattaforme per la visione in diretta dell’italico pallone, e abbiamo scoperto, sulla nostra pelle e soprattutto su quella dei nostri figli, che l’abbondanza, soprattutto certa abbondanza, può produrre nausea, ovvero, nelle generazioni post, quelle che non hanno patito la penuria del calcio televisivo, razionato e inscatolato, della Rai di antico regime, addirittura disaffezione. Niente di nuovo sotto il sole, a pensarci bene: come tante cose solo intraviste, accennate, di là da venire, il calcio a tutte le ore era bellissimo quando ancora abbozzato, o novizio. A regime, adesso, è diventato, salvo rare eccezioni, stancante. Ci siamo accorti, i giovani prima di tutti, che una partita raccontata è enormemente più bella, intensa, tecnicamente vivace, delle prestazioni spesso anonime, oltreché stucchevolmente ripetitive, che possiamo vedere sullo schermo. 

Per dire, e per tornare all’assunto di partenza: posso assicurare che la Juventus iperallegriana (non è un complimento) di questo 2021-2022, alla radio (mi raccomando, alla radio) gioca benissimo, pressa alta, è sempre incombente sull’avversario, e ad ogni calcio d’angolo produce, tramite la mia fervida immaginazione da tifoso, plurime occasioni da gol. Della necessità di sopperire con la fantasia alla routinarietà pedatoria di un calcio perlopiù privo di qualità e di campioni come quello italiano si sono resi conto, d’altra parte, gli statistici che, qualcuno lo avrà notato, infiocchettano di numeri roboanti partite in verità sotto il livello della decenza. Basta guardare un match qualsiasi di serie A e poi confrontare i dati sui passaggi riusciti e sui (presunti) tiri, rilanciati da social e siti, per rendersi conto di come da un evento pallonaro modesto, modestissimo, possa zampillare, attraverso la creatività numerologica degli analisti, l’immagine, sempre e comunque, di una nuova Italia-Germania 4-3. 

Insomma, dalle nostre parti – è abbastanza noto – per eccepire su argomentazioni un po’ sciroccate, si è usata per molto tempo, nella dialettica spicciola, la locuzione “Ma te vedi i film alla radio!”. Uno che vede i film alla radio, non lo nego, è un originale. Ma uno che oggi ci guarda le partite, sicuro, è, in attesa di qualcosa di meglio, come minimo in odore di saggezza.