Il giorno della vittoria, rubrica Micromega del 2 aprile

Premessa fondamentale: tenere una rubrica ai tempi del Coronavirus è qualcosa di molto simile a una roulette russa. Se parli dell’epidemia, rischi ragionevolmente di indurre fenomeni di rigetto in un pubblico che è bersagliato dall’alba al tramonto, e anche oltre, da verbocinazioni e acrobatiche considerazioni ora di adrenaliniche star della virologia internazionale, ora, più spesso, di improvvisati esperti di curve di contagio e tamponi che anche la metà basterebbe. Se non parli del Covid, d’altra parte, fai la figura di quello che vive nella torre d’avorio, o peggio di quello che proprio se ne frega. Allora, dato che a me frega molto di quello che sta succedendo e che, per mia fortuna o sfortuna, non vivo in una torre d’avorio, ci provo, a dire qualcosa di sensato e magari di originale, sul Coronavirus. Perché una questione che mi frulla nella testa da qualche giorno c’è, e forse non è nemmeno campata per aria. Ho cominciato a pensarci a forza di sentir dire, da tutti i canali di comunicazione possibili e da molte fonti istituzionali, che “siamo in guerra”. Si intende, evidentemente, che Covid 19 rappresenta una minaccia a cui si dovrebbe rispondere con un comportamento propriamente belligerante, fatto di disciplina, compattezza, se necessario anche della reviviscenza di un qualche spirito patriottico, come testimoniato dalle adunate da balcone delle scorse settimane. In verità, i primi a intervenire per ridimensionare la valenza della roboante dicitura marziale, e per mettere qualche dubbio sul fatto che l’Italia – piuttosto che un qualche altro paese colpito dalla pandemia – possa legittimamente considerarsi “al fronte”, sono stati proprio quegli anziani che, in teoria, avrebbero, come generazione, i maggiori motivi per lamentarsi e deprecare lo stato attuale delle cose. Il problema è che gli ottuagenari la guerra vera, quella della morte di massa, dei feriti e degli invalidi a frotte, delle penurie e violenze sistematiche, l’hanno vissuta, tra il 1940 e il 1945, e ovviamente, per quanto preoccupati e colpiti oggi direttamente nelle persone, fanno fatica a sopportare il paragone. Inutile dire che, per quanto può importare, e con tutto il rispetto per chi ha sofferto e sta soffrendo a causa del Coronavirus, io sono d’accordo con i padri e i nonni, che invitano alla sobrietà lessicale ed emotiva. Questo non toglie, però, che l’equiparazione tra l’attuale emergenza e un generico stato di guerra possa avere una qualche plausibilità. 

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