Il Rock? Non morirà mai!

Saranno i cinquanta e passa (anni, intendo), per cui il tempo si comincia a contare dalla fine e non dall’inizio, con la fregola di fare tutte le cose che un giorno (gesto scaramantico tipicamente maschile) non si potranno più realizzare, sta di fatto che negli ultimi mesi mi sono dato ai concerti e alla musica dal vivo con una frequenza e una intensità, davvero, come se non ci fosse un domani.D’altra parte, dicono le cifre, partecipo a un fenomeno generalizzato, cioè il riempimento degli stadi e dei palazzetti, in tutta Italia e in tutto il mondo, soprattutto dopo il Covid, non solo per le grandi star del firmamento, che mietono sold out con una facilità disarmante, ma anche per le seconde schiere, le reunion abbastanza raccogliticce di vecchie band, addirittura i tributi ad autori scomparsi o fuori attività. Il fenomeno è stato abbondantemente analizzato, sicuramente sulla musica e sullo stare insieme ai concerti si è riversata l’ansia di socialità successiva alla pandemia, ma la dinamica era già avviata da prima. segue

La mercificazione tecnologica del prodotto musicale, grazie alle piattaforme, ha infatti acutizzato la distanza fra l'ascolto di musica riprodotta – che facciamo nei diversi contesti di vita, da quando sentiamo un brano in automobile a quando orecchiamo una melodia familiare in un supermercato – e la fruizione degli eventi dal vivo. Per quanto le singole hit, su Spotify o altrove, raccolgono decine o centinaia di milioni di ascolti, altrettanto, quasi come a compensazione, ci sono persone, come me, in giro per il mondo, che fremono per assistere a eventi unici, e irripetibili, i concerti appunto. Si tratta di passare dalla impersonalità, a volte disarmante, dell’ascolto di un file digitale con realtivo contenuto musicale al rapporto diretto, caldo, organico, con un palco, un artista, una band.

Fin qui, si direbbe, tutto bene, ma come sempre c’è un però. E questo però, almeno nel mio caso, ma temo di poter generalizzare, è dato dal fatto che in gran parte queste esperienze concertistiche sono legate a musicisti e performer, per così dire, “maturi”, che hanno accompagnato l'intera nostra esistenza dagli esordi a oggi. Si va ad ascoltare un gruppo o un solista, per lo più, perché di fatto sta crescendo e invecchiando con noi, ed è come frequentare un amico, in senso letterale, perché più avanzano gli anni più aumenta la preoccupazione di potersi vedere di meno, per cui il comandamento è “andare, andare, andare”, e prendere in prevendita, a costi spesso non trascurabili, biglietti per concerti che solo quindici, venti anni fa si sarebbero abbondantemente snobbati all'insegna del “tanto passa sempre qui in Emilia”. segue

Questo aumento di preziosità, e quindi di domanda, di attenzione, e anche, come detto, di costo specifico del biglietto, in proporzione all'invecchiamento dell'artista e quindi al rischio concreto di non sentirlo più, è diventato in alcuni casi un curioso fenomeno di marketing: per dire, da quando, legittimamente, Claudio Baglioni ha annunciato che farà tour solo per qualche anno ancora, e poi basta – il che sarebbe anche un po’ tautologico, considerando che il Baglioni stesso non è esattamente di primo pelo, per quanto ancora professionale e convincente dal palco – è cominciata la corsa ai ticket di quelle che dovrebbero essere le sue ultime esibizioni. L’estate scorsa sono andato a vedere i Deep Purple a Parma, e ci siamo detti, io e i miei amici, che bisognava andare, perché poteva essere l'ultima occasione in Italia, non perché siano malati o chissà cosa, ma semplicemente perché la loro età non è quella consona a spaccare chitarre o casse sul palco, ma piuttosto al ritiro in una costa spagnola per migranti-pensionati del sole.

Inutile dire che dal Rock, e in generale da tutta la musica leggera che è fiorita tra gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, ci saremmo aspettati, come generazione e come appassionati, di tutto, meno che la possibilità di passeggiare, fianco a fianco, con alcuni nostri idoli nel buon ritiro della tarda età artistica. D’altronde, nell’epoca della riproducibilità tecnica a questo punto non più solo del singolo brano musicale ma della stessa esperienza concertistica, si provvede già da tempo a surrogare l’inevitabile – il ritiro o la perdita di band o cantanti – con i gruppi e gli artisti “tributo”: per dire, gli ultimi due concerti che ho visto e ascoltato sono stati quello dei finti Abba, a Capodanno, a Bologna (molto bravi), e quello dei Pink Floyd, anche in questo caso riprodotti, al Teatro comunale di Carpi qualche settimana fa (bravissimi).

E questa ultima osservazione introduce un’ulteriore, conclusiva, un po’ dolente considerazione: perché se è vero che parabole come quelle dei Rolling Stones, oppure di Vasco Rossi, o del Boss Springsteen, ci dicono della capacità di macinare audience e profitti, nel tempo, nei decenni, grazie alla fedeltà dei fan e alla loro pertinace volontà di invecchiare con gli idoli discografici delle rispettive adolescenze e giovinezze, è anche vero che a questo punto non tanto l'offerta nutre e coccola la domanda, ma la domanda, cioè la voglia di continuare ad ascoltare i Dire Straits, i Genesis, i Queen, oltre i limiti del tempo e della vita, produce una clonazione potenzialmente infinita – in carne e ossa, oppure, che so, un giorno, tramite degli ologrammi – degli artisti originali mediante i loro emuli e prosecutori.

Diciamoci la verità, magari sottovoce: quando qualcuno sbandierava che “The Rock will never die”, beh, che esso non morisse mai in questo modo, per conservazione o riproduzione bio-tecnologica dei suoi eroi, non lo potevamo neanche pensare con l'anticamera più scherzosa del cervello.