La fame, l'abbondanza - Rubrica Micromega su Voce digitale del 27 agosto

Scena numero uno: quattro amici raggiungono una villa fatiscente per il fine settimana e danno corso al loro insano proposito, ammazzarsi di cibo, nel senso letterale dell’espressione, rimpinzandosi di ogni possibile alimento e intingolo fino a tirare le cuoia, cosa che avverrà effettivamente nel giro di qualche ora, con spiazzante effetto tragicomico per lo spettatore. Scena numero due: su una spiaggia ai confini tra Liguria e Toscana alcune coppie di trentenni (anno più, anno meno), sani, in forma, con corpi ora segaligni ora marmorei, discettano per tre ore, ininterrottamente, di menu e gastronomie varie, regalando al sorpreso dirimpettaio di ombrellone, da par suo piuttosto sovrappeso, uno stupefacente saggio di verbocinazione culinaria (privo di declinazioni pratiche, nel senso che nel citato mezzo pomeriggio di riflessioni ad alta voce su cibi e ristoranti gli adoni non consumano neanche una bottiglietta di acqua minerale). segue qui sotto

La prima sequenza, i cinefili lo avranno inteso, riassume alla carlona la trama del film “La grande abbuffata”, controversa pellicola (per alcuni un capolavoro, per altri una ciofeca, io mi metto nel mezzo) di Marco Ferreri datata 1973. La seconda, invece, è tratta, più modestamente, dalle mie vacanze estive, e da un episodio reale capitatomi sulla Marina di Carrara nei giorni intorno al Ferragosto (quello sovrappeso sono io, si era capito). Cosa c’azzeccano le due scene, distanti quasi cinquant’anni, la prima grottesca e incupita da un’aura di nichilismo, la seconda gioviale e scanzonata, una di finzione, l’altra reale (anche se confesso che per un po’, in spiaggia, ho sospettato la presenza di una candid camera, tanto era onirico il contrasto fra questi simil-atleti olimpici, indistintamente maschi e femmine, e il loro strologare all’infinito di frutti, umidi e marinature)? All’apparenza nulla, e forse nulla in assoluto, ma essendo io in vacanza ho avuto il tempo di farci una pensata. E mi è venuto in mente che il dramma di Ferreri, fra le altre cose (fra le altre cose, ripeto, prima di prendermi una ramanzina da quelli che di cinema se ne intendono), racconta di un rapporto squilibrato con il cibo e con la sua disponibilità. Per cui - siamo agli inizi degli anni Settanta - il mangiare, che storicamente era scarso e, quando presente, fonte di sopravvivenza, diventa, con e dopo la rivoluzione agricolo-industriale e il boom economico (italiano e mondiale), abbondante e – perdonate la forzatura, che poi forzatura è fino a un certo punto, considerato quante patologie ferali sono ascrivibili al cattivo cibo e al troppo cibo – mortifero. Mentre i dieci-dodici neo-adulti che mi hanno allietato dalle quattro alle sette di sera con il loro infinito, alluvionale, ragionare di primi e secondi, antipasti e aperitivi, ci dicono, a mezzo secolo di distanza dalla pellicola sulla “Grande abbuffata”, di come abbiamo esorcizzato, o meglio, stiamo esorcizzando il problema paradossale, assurdo, del troppo cibo. Parlandone e discutendone, fotografandolo e postandolo, facendo recensioni e seguendo trasmissioni culinarie in tv, ma mangiandone, tranne rare eccezioni, il meno possibile.

Finalmente – credo – ho capito il senso terapeutico, quasi profilattico, di tanto uso pubblico della gastronomia (chef che diventano opinionisti, trasmissioni di ricette che vanno in prime time, gente che perde la testa – e il portafoglio – per inseguire la distintiva esperienza di pasti frugali, ai limiti dell’inedia, social network invasi da tutorial su “come preparare”, eccetera). Agli esordi del fenomeno pensavo che tale sovraesposizione mediatica del mangiare fosse il diabolico viatico per un processo di appesantimento di massa in salsa italiana, sulla falsariga di altre, precoci, traiettorie involutive che hanno rovinato l’alimentazione e la salute, che so, degli americani piuttosto che dei nauruani (la Repubblica di Nauru, nell’Oceania, è il paese con la più alta incidenza di obesi al mondo). Sbagliato. Le scene, frequenti (poi ho anche iniziato a farci caso), di uomini e donne alla Vitruvio, senza un filo di grasso e impermeabili al girovita, che si intrattengono, in vivo o in remoto, discutendo di pietanze e ingredienti, inducono invece a pensare che lo spettro della morte bulimica tratteggiato dal film-cassandra di Ferreri (tutti benestanti e quindi tutti, disperatamente, saturi di cibo) si allontana non facendo finta di niente (e tenendosi, in segreto, i morsi della fame) ma facendo dell’alimentazione l’epicentro della vita sociale e psichica (prenoto il ristorante alla moda con due mesi di anticipo per non abbuffarmi oggi). Magari la mia connessione fra i quattro amici crepati di cibo consumato di Ferreri (la profezia) e la dozzina di trentenni immunizzati dal cibo parlato di Marina di Carrara (la realtà) è una sciocchezza destinata al macero. Piace però pensare che un tempo, molto lontano, uomini e donne narrassero di cibo per anestetizzare la fame (i paesi di cuccagna, le montagne di maccheroni e formaggio) e che oggi, simmetricamente, lo rendano oggetto di conversazione per disinnescare i pericoli dell’abbondanza. Davvero, verrebbe da dire, nel caso dell’alimentazione più che mai, l’importante è che se ne parli.