Lezioni d'italiano, Micromega

Non è mica facile tenere una rubrica. Ogni giorno, settimana, mese, a seconda della periodicità, bisogna, diciamo bisognerebbe, scrivere delle cose interessanti, capaci di staccarsi dal coro, che siano sul pezzo senza però essere schiacciate su un’attualità che fa presto a divenire passato remoto (e dimenticato). 

Io, questo mese, un’idea ce l’avevo, anche buona, almeno a mio modesto parere. E sarebbe stata proprio un’idea da rubrica, una cosa che non c’è nelle prime pagine dei quotidiani ma che poi, quando uno la legge, pensa, o dice, più o meno, eh però non ha mica tutti i torti, il rubrichista, anzi, meno male che mi ci ha fatto pensare, sennò magari non me ne accorgevo neanche.

Questa idea, devo dire la verità, non mi è venuta spontaneamente, quando avevo vent’anni sì che producevo idee a getto continuo, c’erano dei giorni che mi sentivo la sostanza pensante di Cartesio, o di Spinoza, quella che sforna tutte le nozioni corrette con metodo geometrico, una dopo l’altra, per deduzione, per premesse e conseguenze, premesse e conseguenze, se non ci fosse ogni tanto da dormire e da mangiare, in una settimana una coscienza così tirerebbe su tutto il mondo, almeno quello delle idee.

No, adesso i pensieri (o gli spunti per le rubriche, tanto per non fare troppo il fenomeno) mi vengono dai fatti che capitano, o che capita di osservare, forse è normale così, quando si è giovani il mondo appare un mezzo casino da riordinare e da aggiustare con la forza (geometrica, premesse e conclusioni, premesse e conclusioni) delle idee, dei principi, dei valori, poi si vive – non dico s’invecchia, si vive, basta quello – e si cominciano ad accettare, se non proprio apprezzare, le storture, le incongruenze, le stranezze, e le piccole cose al posto delle grandi questioni. La volontà di trasformare il caos in cosmo, allora, se ne va in pensione (anticipata), insieme ai bollori politici e alle intransigenze morali.

Per venire al dunque, qualche settimana fa sono andato a fare un bel giro automobilistico per l’Europa franco-tedesca, lungo i confini, sino alle Fiandre, insomma il vecchio Ducato di Borgogna, così ci mettiamo dentro un riferimento storico che dimostra che ho studiato per qualcosa. Per andare su verso l’Alsazia, zona Strasburgo, si passa dalla Svizzera (lo so, non è una notizia), con un bel pezzo di Canton Ticino. Era tanto che non transitavo di lì, gita a Chiasso, addio Lugano, eccetera eccetera. Sensazione impagabile, ma non per il paesaggio o chissà che, no, no, ma per la radio, la (per noi del Novecento) abbastanza mitica Radiotelevisione della Svizzera Italiana. Quella emittente che in audio o in video, insieme alla omologa Capodistria, consentiva, prima dell’avvento colorato e schizoide dei canali privati e commerciali, fughe eversive dal monopolio Rai, e dalle inique privazioni del sistema radiotelevisivo pubblico nazionale (ad esempio, tanto per giocare a carte scoperte, sul calcio di coppa del mercoledì sera, mica il festival di Bayreuth in diretta).

Dopo anni di progressiva e anestetica immersione nei vernacoli regionali, o cittadini, che impazzano nella comunicazione, anche di stato, anche giornalistica, sulle principali rete televisive e radiofoniche italiane, ascoltare, per gli oltre cento chilometri dal confine con la Svizzera al San Gottardo, dizioni non sguaiate e pronunce corrette, senza inflessioni romanesche, campane, venete, romagnole (detta così, a campione, ma chi è senza peccato…), beh, è stato un sollazzo, forse nostalgico, forse passatista, ma goduria pura.

Lo dice uno, sia ben inteso, che dopo aver trascorso un bel pezzo della propria esistenza tentando di cancellare la cantilena emiliana e smussare le zeta modenesi, un po’ per fregola intellettualistica, un po’ per esigenze di credibilità (non è bello pronunciare frasi seriose e meditate per poi ricevere apprezzamenti sull’accento, “è così simpatico”), da qualche anno ha mollato i cavalli, e se non sta attento delle volte, soprattutto nei momenti di concitazione ed euforia, sembra un Cevoli solo più occidentale.

Però si potrà ben convenire, credo: uno, che oggi, in Italia, sentire uno speaker radiotelevisivo non gravato, nell’eloquio, da curvature semi-dialettali, è una rarità; due, che, a reti unificate, la corretta fonetica dell’italiano orale viene straziata diuturnamente da trascinamenti vocalici simili a latrati, raddoppiamenti consonantici che paiono ordigni e tutto un armamentario di stranezze gutturali che viene paura solo a ripensarci; tre, che forse il cumulo, negli anni, dei “che stai a dì?” e degli “eccezzzzzzzionale” non aiuterà il miglioramento dei costumi nazionali, anzi.

Insomma, prendendo spunto dalla elegia sonora di un notiziario della Radio svizzera italiana letto, pronunciato e ascoltato come Dio comanda mi era venuto il bernoccolo di fare una tirata, anche abbastanza velenosa e dolente, sulla nostra bella lingua nazionale, codificata e diffusa con tanta difficoltà nei secoli, ma che oggi è divenuta sinonimo di artificio e insincerità, per cui se dici – in prima serata Rai – “bello” con quattro elle tutti pensano che tu sia verecondo, mentre se non produci storpiature o parossismi fonetici, ecco, è arrivato l’intellettualone, e non ti fila nessuno.

Volevo fare questo, poi però ho pensato che sarebbe stata una roba un po’ di Destra, da glottologia nazionalista e nostalgica, no, lasciamo perdere…anzi sta a vedere che pensano che così io voglia prendere per i fondelli la Meloni, che quando fa le conferenze stampa neanche il Pasolini di Accattone, no, no, vade retro, il pezzo non lo faccio. E non l’ho fatto.

Però quel “Buonasera, ecco le principali notizie del notiziario delle venti della Radio della Svizzera italiana”, recitato a puntino, senza cascami strapaesani, come lo scolpivano i conduttori non borgatari della tv della mia infanzia, oh, quello lì non me lo toglie nessuno.