Mamma, li Afghani!

Pare che ci siamo ritirati dall’Afghanistan. E che la missione ventennale, successiva agli attacchi alle Torri Gemelle, patrocinata dagli Usa ma entusiasticamente abbracciata da nove decimi del cosiddetto Occidente, sia stata un flop. Abbiamo buttato, in ordine decrescente di importanza, vite umane (“nostre” e “altrui”, ammessa che sia possibile una così triviale distinzione), credibilità e soldi, tanti soldi, investiti come peggio non si poteva in una missione scellerata.

Pare che adesso che sono tornati i Talebani (tornati per modo di dire, mai usciti e mai realmente arginati, tutt’al più contenuti, ci dicono le cronache più attendibili del ventennio), il grosso problema sia rappresentato dalle ondate di profughi che stanno (starebbero) per abbattersi su un’Europa già inacidita dalla crisi economica e pandemica.

Pare che non sia la prima volta che facciamo dei pasticci nella gestione delle crisi internazionali e nella previsione delle loro possibili conseguenze sui flussi di popolazione. Solo a elencare le principali cappelle infilate in Medio-Oriente, sostenendo i ribelli afghani contro i sovietici nella guerra 1979-89 si è dato corso al regime Taliban di Kabul e alle ospitate di Al-Qaeda, invadendo l’Iraq nel 2003 (previa esibizione delle ampolle del Piccolo Chimico alle Nazioni Unite per incastrare Saddam Hussein) si è fornita un’occupazione lavorativa ad Al Zarqawi e ai tagliagole dell’Isis, con il tira e molla sulla Siria si è concessa l’occasione della vita ai nostalgici del Califfato e a una bella schiera di fuori di testa che hanno seminato morte terroristica a Levante come a Ponente. E tutte le volte il risultato più durevole delle operazioni è stato l’affollamento della già nutrita schiera degli sradicati, dalle élite costrette all’esilio ai profughi delle tendopoli e delle vie della disperazione.

Pare che questo ingrossamento delle profuganze, medio-orientali e globali, ci irriti e preoccupi molto. Ci eravamo illusi di salvare sia la coscienza sia i privilegi (frutto, questi ultimi, anche di qualche secolo di colonialismo e imperialismo predace ai danni di asiatici, africani e amerindi), distinguendo migranti per motivi economici e migranti, per così dire, umanitari. I primi, tanti, andavano centellinati, con un proibizionismo delle frontiere che avrebbe alimentato (e alimenta) l’immigrazione clandestina, cioè precaria, sfruttabile e liquidabile finite le raccolte dei pomodori (o le elezioni). I secondi, pochi in teoria, dovevano essere accolti, perché siamo civili e morali, noi. Poi ci si è accorti che la distinzione tra il fuggire dalla fame e il fuggire dalla guerra non è sempre chiara e distinta, che i rifugiati del mondo crescevano di numero e avevano anche qualche recriminazione da portare. Per cui è partito il mantra: invasione, sostituzione, siamo finiti, è peggio di quando è caduto l’Impero Romano d’Occidente, altro che cavalli dei cosacchi, avremo in San Pietro, zona fontane, ad abbeverarsi, i cammelli dei predoni del deserto, infiltrati e travestiti sotto le ingannevoli spoglie di reietti espulsi da paesi in fiamme e in via di disfacimento.

Pare che tutti i profughi ci rovinino il sonno e gli aperitivi con gli amici, ma alcuni più degli altri, quelli provenienti da stati (per così dire) a maggioranza e/o tradizione islamica. Perché il migrante, per definizione, come nel caso dei venti milioni di nostri connazionali che abbiamo spedito senza biglietto di ritorno a cercare libertà, fortuna, cibo in giro per il mondo dall’unità d’Italia a oggi, destabilizza e rompe le uova nel paniere. Ma se abbiamo anche l’idea che voglia conquistarci (l’anima, le abitudini, la cultura), allora fa veramente paura, e il migrante islamico sembra che abbia queste caratteristiche qui – solo quello islamico, per l’amor del cielo – che quando va in un posto, primo non si fa minimamente condizionare dal luogo in cui arriva, per cui non se ne parla di laicizzarlo o secolarizzarlo, la religione e il jihad ce li ha nel sangue; secondo, quel posto lì lui lo vuole soggiogare, sharia per tutti entro il primo fine settimana dall’arrivo (tanto che se un uomo ammazza la moglie a Milano è un malato di mente, se lo fa in una località dell’Appennino centrale è un barbaro, se lo fa provenendo dal Marocco è Islam).

Pare, a me, che da queste preoccupazioni e fobie, sui profughi e sui migranti in genere, non ci libereremo facilmente. Perché non sappiamo quasi niente del mondo (la guerra nello Yemen, per dire, non ha neanche un profilo Instagram). E non riusciamo a tradurre nella nostra lingua del quotidiano, non riusciamo a comprendere, la fame, fame di vita e opportunità, di quelli che si spostano. Prima di tutto a causa delle dure leggi della demografia e dell’anagrafe, che hanno diviso il mondo in due più della Guerra Fredda o delle latitudini: in Europa gli over 60 sono il 26 per cento della popolazione (Italia 30), gli under 15 il 16 per cento (in Italia il 13). In Africa hanno meno di 15 anni due persone su 5 (40 per cento). Come facciamo a intenderci e a capirli?

Quando ascolto le geremiadi su che cosa vogliono e cosa vengono a fare “questi qui” non riesco a non pensare all’anziano dirimpettaio di casa della mia infanzia. Che ci proibiva di giocare al pallone (e a nascondino, e alle gare in bici) alle quattro del pomeriggio. Si capiva benissimo che dietro quell’acredine, e all’insofferenza per la caotica e imprevedibile motricità di una torma di bambini, c’era l’antica sua possibilità, ormai spenta, impraticabile e non rinnovabile, di essere lì, in mezzo a noi, a giocare, correre, esplorare, come aveva fatto un tempo.