Mors mea, ma pure tua, Micromega

“Sei già abbronzato agli inizi di luglio? Cos’è quel colore, tu, che fra l’altro sei sempre di un pallore da funerale? Vorrai mica dirmi che sei andato in vacanza, con tutto quello che sta succedendo nel mondo, nelle nostre vite, il covid, la crisi economica, l’inflazione, la siccità, poi è anche caduto il governo? Meno male che ti lamenti sempre…”.

Tempi difficili per chi ha la fortuna, o la sventatezza, di concedersi un momento di piccolo edonismo, eccentrico rispetto al canovaccio narrativo dominante, fatto di cupezza e insoddisfazione. Si rischia la gogna.

Oh, sia chiaro: rappresentiamo sicuramente la civiltà che, nella storia, se non altro in ragione di mezzi di comunicazione di massa inusitati e soprattutto dei social network, ha maggiormente puntato sulla ostentazione dei propri consumi, soprattutto se voluttuari. Nessuno di noi è immune: se non sta attento, anche il soggetto più avvertito e autocritico va a finire che prenota il ristorante, fa il viaggio, acquista l’abito elegante non tanto in funzione della fruizione del bene o dell’esperienza in sé quanto presagendo e pregustando la tacita ammirazione/invidia di amici digitali e spettatori vari. Ma il contraltare di questo regime sborone di massa, che fa sì che anche un piatto di spaghetti alle vongole possa essere ritenuto meritevole di un post su Facebook, è che ormai ogni elemento minimamente capriccioso e acquisitivo dell’esistenza rischia di essere rimproverato e bollato come se fosse un lusso sfrenato, di e per cui provare imbarazzo. 

Come siamo arrivati a questo? Come siamo approdati a un contesto nel quale se, come mi è accaduto, in ragione di una serie di congiunture propizie sono nelle condizioni di regalarmi sei giorni al mare, e quindi di maturare una pigmentazione prematura rispetto alle classiche rosolature agostane, devo poi stare attento a come la spiego, o per meglio dire come la giustifico, e sulle prime nicchio, quasi quasi invece che dire che sono andato al mare tiro fuori che porto il gatto a passeggio, no, è poco credibile, c’è sempre però la scusa della tosatura dell’erba, un evergreen della menzogna dissimulatoria?

Occhio: l’idealizzazione del tempo andato è sempre dietro l’angolo. È facile pensare, o illudersi di ricordare, che un tempo quando cambiavi la macchina, oppure indossavi un paio di scarpe sfiziose, l’ammirazione e le congratulazioni fossero reali e non di facciata. L’invidia sociale, anche nella forma tapina e particolaristica legata a un singolo bene di consumo o, che so, a un upgrade di carriera altrui, è sempre esistita, così come eterna è l’ipocrisia dell’apprezzamento esteriore e del parallelo disprezzo di sostanza.  

macchina, oppure indossavi un paio di scarpe sfiziose, l’ammirazione e le congratulazioni fossero reali e non di facciata. L’invidia sociale, anche nella forma tapina e particolaristica legata a un singolo bene di consumo o, che so, a un upgrade di carriera altrui, è sempre esistita, così come eterna è l’ipocrisia dell’apprezzamento esteriore e del parallelo disprezzo di sostanza.  

Oggi però, mi pare, il problema si presenta nella forma plateale, collettiva, dell’invidia preventiva e organizzata, che ha a che fare prima di tutto con la psicologia delle persone, ma che diventa poi fattore politico, modalità ordinaria di convivenza pubblica. In sintesi – e ovviamente mi prendo la responsabilità di quello che scrivo – pare che la conclusione, evidente, anche traumatica, di una lunga stagione di crescita delle condizioni materiali e delle aspettative individuali ci stia lasciando in eredità (velenosa eredità) una mentalità per la quale, sotto sotto, nei diversi gangli della società e ciascuno a suo modo, siamo tutti prioritariamente gratificati dall’insuccesso, o dal segno “meno”, del dirimpettaio piuttosto che dalla riuscita, dal “più”, personale. Per cui, all’inverso, ogni avanzamento di status, qualsiasi step incrementale, di cui è beneficiario un nostro simile, risulta quasi più angosciante e avvilente, nella somma algebrica della felicità percepita, di un regresso personale. 

Confesso che, almeno per me, si tratta di un esito abbastanza paradossale e imprevedibile della civiltà postfordista del narcisismo e della competizione. Perché l’epoca successiva alla fine dei Gloriosi Trenta del grande compromesso popolare e socialdemocratico (1945-1975, a spanna) aveva visto  per lo meno prevalere, all’inizio, nei famosi o famigerati anni Ottanta, la parte costruttiva dell’autoaffermazione del singolo, il carrierismo, il consumismo distintivo e così via, cose anche abbastanza nocive alla coesione sociale, ma perlomeno, come si diceva una volta, “progressive”, capaci di tenere in movimento la società e di farle compiere, malgrado tutto, passi in avanti. 

Ora questa medesima centralità dell’io, che sfocia molto spesso nel solipsismo, sembra invece tradursi prevalentemente nell’aspirazione un po' nichilistica del singolo soggetto ad annullare tutte le potenzialità altrui. Sintetizzato in termini un po' pedestri: se non posso arrivare ad un certo punto, se non posso ottenere un determinato risultato, e non posso conseguire un preciso status, allora la sola speranza che mi rimane è quella di vedere purgati, o comunque arrancanti, anche gli altri. È, per parlarsi chiaro, quell’egualitarismo al ribasso, su basi anarchico-libertarie, che vede privilegi ovunque, che caratterizza come casta qualsiasi aggregato che non appartenga alla propria intimità familiare e che, per dire, nella sua foga anti-meritocratica e anti-istituzionale, è disposto a una maggiore indulgenza nei confronti dell’astuto evasore fiscale o della Gomorra di turno piuttosto che di un premio Nobel della Fisica (“non lo vinci se non sei un raccomandato”), o di un imprenditore di riconosciuta abilità (“ha solo avuto culo”). 

La cosa, però, spesso sottovalutata è che questa vocazione disgregatrice non riguarda solo i proverbiali leoni da tastiera che si coprono dietro l’anonimato per colpire in modo indiscriminato chiunque abbia l’ardire, in rete, di mostrare un barlume di compiacimento non rispondente al canovaccio cinico imperante. Questo venticello omologante, che vuole il campo di grano non uniforme perché le spighe sono tutte cresciute ma, viceversa, perché i fusti sono stati falciati rasoterra, lo pratichiamo tutti quotidianamente, e in vivo, ora da censori, ora da censurati. 

Se volessimo fare un po' di riduzionismo psicologistico applicato alla politica, ad esempio, non sarebbe difficile individuare nella recente caduta di Mario Draghi una concretizzazione al vertice di tale paradigma nichil-egualitarista: arrivando al parossismo di un Conte o di un Berlusconi che, a meno di intelligenze nascoste che onestamente non sono in grado di cogliere nei loro sguardi, hanno preferito sacrificare una residua ma effettiva rilevanza politica sull’altare dell’astio per il successo e il consenso (non importa quanto meritati) che hanno circonfuso la figura dell’ex presidente della Banca centrale europea. 

Siamo in sostanza a un inquietante evoluzione del vecchio Mors tua, vita mea (lì almeno uno dei due ci guadagnava), in cui l’uguaglianza delle sorti non è né il sole dell’avvenire (tutti uguali nella piena realizzazione di ciascuno) né il presupposto di una società più giusta (tutti uguali nella partenza della gara per la vita). L’agognato livellamento verso il basso delle sorti esistenziali altrui (nell’amore, nel lavoro, nel benessere) diventa invece, nelle psicologie tortuose di una società irrequieta e insoddisfatta, il surrogato fittiziamente sostitutivo della (impossibile, comunque faticosa) realizzazione propria e personale. 

Mors mea, ma pure tua, insomma, è il motto del tempo che avanza. Io, che pure non sono senza peccato, penso sia un assioma sotto la soglia della decenza e della dignità; ma vedo, perplesso e sconsolato, che, in assenza di altro, un sacco di gente – gente perbene, istruita, altrove e altrimenti anche più sensibile di me – ritiene che esso basti per arginare l’infelicità terrena. Sarà…