Next generation, Micromega

Osservo i miei studenti. C’è qualcosa di antico e contemporaneamente di molto nuovo in loro. Dal passato, dal lungo passato di una scuola che affonda le proprie radici nei secoli, per non dire nei millenni, c’è l’irrequietezza giovanile, la indocile postura di corpi sempre troppo piccoli e spauriti o troppo grandi e ingombranti per stare dietro ai banchi. C’è il brulicare di vita di classe, fatto di sguardi, mossette, piccoli focolai di comunicazione e relazione che si accendono a onta della presenza dell’insegnante. C’è, a sedici, diciassette anni, la miscela fra l’insicurezza di avere o trovare un proprio posto nella vita e la baldanza di un’energia fisica e psichica apparentemente senza limiti.

Di nuovo, nuovissimo, ci sono le facce. E con le facce i tagli di capelli, le decorazioni – dai piccoli tatuaggi al trucco ora lieve ora più pesante – e i modi di vestire. Da tempo, da parecchio tempo, non esiste più, in aula come nella società, la classe media. Quella coorte di studenti e studentesse figli e figlie, oltre che dei rispettivi genitori, anche della società fordista e socialdemocratica, dei redditi compattati verso la linea mediana, delle tute blu con salari e stili di vita spesso non difformi da quelli dei colletti bianchi impiegatizi. Oggi vedo i volti, e gli stili, e le estetiche, di una società polarizzata, in cui nella stessa aula convivono (forse per l’ultima volta nella propria vita) la progenie delle impreviste ricchezze e quella delle tante nuove povertà.

Ma la cosa più bella, e per me esaltante, è la fantasmagoria dei tratti etnici e somatici. Non è evidentemente un fatto nuovo la presenza di giovani stranieri nelle classi. È dagli anni Novanta dello scorso secolo che le nostre scuole hanno cominciato a popolarsi di maghrebini, europei dell’est, indo-pakistani, cinesi. Quelli che ho di fronte a me, però, sono diversi, inediti, perché sono tutti nati qui, da genitori stranieri, oppure sono arrivati nella prima infanzia, prima del rallentamento dei flussi migratori verso un paese prima prospero e allettante, poi sempre più respingente come l’Italia. 

Non hanno più, questi Italiani senza cittadinanza (dovranno aspettare i 18 anni, sono poco meno di un milione), le espressioni naufraghe dei predecessori, di chi arrivava in un posto lontano, strano e bizantino, in cui alla solerzia di volontari e operatori socio-educativi si è sempre abbinato e combinato, quasi come se fosse un carattere nazionale italiano, un burocratismo pavido che vuole isterilire, tramite i formalismi, i bisogni della vita. Adesso trasudano maggiore sicurezza, questi connazionali senza saperlo, parlano l’Italiano spesso meglio di noi (perché lo studiano, e socraticamente non si illudono di sapere), addirittura a volte ti fanno l’imitazione sgangherata del nostro buffo dialetto. 

Mi chiedo, guardando queste facce estremo-orientali, nord-africane, slave, e leggendo i loro cognomi, così parchi di vocali e così a rischio di ridicola storpiatura cacofonica (“prof, fa lo stesso, mi chiami Elisa!”), se la società italiana, a partire dalle classi dirigenti (non solo quella politica), ha capito che i movimenti migratori in entrata, nel nostro paese, non sono cronaca, ma storia, hanno già cambiato la demografia e la sostanza socio-culturale della penisola per i decenni a venire, come avvenuto tante volte nel passato.

Detta in altri termini: mi chiedo se siamo maturi, innanzitutto a livello di dibattito pubblico, per comprendere che queste seconde generazioni che io mi ritrovo in classe si collocano – per biografia, per bisogni, per aspettative – in una posizione terza, diversa, rispetto agli stereotipi, opposti ma complementari, del migrante da soccorrere, perché vittima della vita e del migrante da cacciare (o non accogliere), perché veicolo del caos. Paesi molto più cosmopoliti e alfabetizzati del nostro hanno impiegato tempo, tantissimo tempo, per comprendere che, fuori dalle emergenze, la vera fisiologia dei processi migratori non si affronta né con il solidarismo incondizionato (che finisce per rinchiudere l’immigrato e la sua discendenza nella crisalide della minorità e dell’assistenza), né con la criminalizzazione preventiva. Dopo la fase dell’arrivo e dello sbarco (e dei soccorsi, e delle schedature, e delle xenofobie) l’immigrazione è fatta, negli anni, di radici sempre più profonde, di consolidamento delle reti familiari, di generazioni nate in loco, di gente, giovane e non, che non può essere trattata secondo le sintassi del pietismo e dell’interculturalità radical-chic ovvero, nemmeno, secondo l’equivalenza per cui ogni straniero (o discendente di) è, in potenza, un galeotto. Ma che va fatta studiare, emergere, intraprendere, lavorare, perché questo chiede e può fare. Per il bene (e, perché no, l’utilità) di tutti.

Osservo i miei studenti, con facce che vengono dai quattro angoli della terra, e con questa voglia di non essere né paria né feccia, e vedo un baluginìo di domani in mezzo a un presente asfissiante. Certo, mi si obietterà che gli Italiani hanno appena plebiscitato Giorgia Meloni e il suo Gran Consiglio dei Ministri, con l’inquietante corredo di dicasteri per la natalità italica e l’autarchia alimentare. Ma, come diceva una testa piuttosto fine della prima metà del Novecento, quando il vecchio modello economico-sociale muore e il nuovo non può ancora nascere (per tanti motivi, non ultimo, nel nostro caso presente, il fatto che l’Italia, me compreso, è per lo più uno strapaese provinciale abbastanza anziano), “in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Ci vuole pazienza.