Nulla sarà più come...dopo, Micromega

Me lo ricordo, oh sì, me lo ricordo eccome, dopo un mese di pandemia e qualche giorno di lockdown, erano già partiti i proponimenti, gli impegni per il futuro, nulla sarà più come prima, e se tutto finirà, e prima o poi finirà, faremo tesoro della lezione. Niente rimarrà invariato, era questo il mantra della primavera 2020, e lo è stato per molto tempo, almeno fino a quando la burocrazia relativa ai meccanismi di confinamento e le polemiche sui vaccini non hanno creato bolle discorsive alternative.

All’inizio, quasi come se ci dovessimo ingraziare divinità punitrici, abbiamo fatto atti di contrizione, io stesso ricordo di aver scritto varie cose sul fatto che il Covid insegnava innanzitutto ad avere un maggiore rispetto dell’ambiente e delle foreste, degli ecosistemi in cui si annidano i virus boomerang che, scovati, possono sterminarci. 

Proviamo un attimo ad andare con la memoria a tre anni fa, e scagli la prima pietra chi non si è macchiato della colpa, veniale certo, ma diffusa, collettiva, di aver preso impegni insostenibili per il domani. Si parlava della provvidenziale lezione della pandemia, del fatto che dopo l’emergenza sanitaria le città sarebbero tornate a misura d’uomo, decongestionandosi; le aree metropolitane, a fronte di cotanta virosi, non avevano più ragione di esistere, lo stesso pendolarismo di massa che caratterizza la società del terziario, si diceva, è destinato a implodere, perché ci sono le piattaforme, ci sono le connessioni sempre più potenti, nessuno è più disposto ad andare nella suburra del sovraffollamento e del contagio, a maggior ragione se hai imparato che si lavora meglio in pigiama e con il caffelatte domestico che non in un ufficio open space, solo per raggiungerlo ci vanno mezza giornata e un migliaio di calorie. 

E poi i discorsi si elevavano, si meditava sulla necessità di riscoprire le relazioni più vere, quelle familiari, un sacco di gente che dichiarava di poter accettare il lockdown solo in ragione dell’inedita possibilità di stare con i figli, e perché no, di imparare a fare il pane, e di accompagnare il ritmo dei cicli produttivi della natura, ci facciamo l’orto, eccetera eccetera. Spesseggiavano verbiloqui, tipici delle grandi fasi pestilenziali e dei traumi correlati, sulla necessità di riprendere in mano le proprie vite, da tempo sequestrate per opera della megamacchina lavorista e mercatista, inutile sfiancarsi di ore-lavoro e produttivismo all’ignoranza se poi, da un momento all’altro, può arrivare la nera signora con la falce, anche senza tuo dolo e responsabilità, dall’alto, anzi in questo caso dall’Oriente, così, zero preavviso. 

Per venire più allo specifico, io, che lavoro nella scuola, ho esatta memoria di quanto si strologasse - me compreso, sia chiaro - sul fatto che non tutto il male era venuto per nuocere, la famigerata didattica a distanza, seppure con tutte le sue storture, le sue sperequazioni e le sue inefficienze, ci avrebbe insegnato e ci avrebbe educato, per l’eternità, a un nuovo modo di concepire la formazione degli studenti, a relazioni meno poliziesche, più orizzontali, più incentrate sulla partecipazione, e non sul rendimento o sul profitto. E poi, si fantasticava, ci saranno tante opzioni a oggi inesplorate sulla possibilità di erogare didattica in remoto, si potranno alternare giornate a scuola con giornate a casa, corsi di recupero, scuola estiva, scuola per i figli di migranti che tornano in patria, quanti radiosi soli dell’avvenire si schiudevano all’orizzonte.

Ora si galleggia a metà fra il malinconico e il rancoroso, ricordando tutti i propositi virtuosi formulati all’epoca, all’insegna dell’abbiamo capito la lezione, convertiamo il male in bene, siamo di fronte ad una crisi, cento, duecento, mille esternazioni, dagli opinionisti del New York Times al cane del vicino, tutti a rammentare che “crisi” in greco vuol dire difficoltà ma anche momento di caduta da cui ci si rialza, e così via, filosofeggiando. 

Certo, poi sono subentrate stanchezza e prosa (delle disposizioni securitarie, dei ristori, dei vaccini), però restano agli atti tutte le roboanti asserzioni sulle dinamiche positive e sagge che avremmo dovuto innescare a partire dalla batosta della pandemia. Oggi, di quel mondo visionario lì, rimangono, più che per volontà, temo, per dimenticanza, solo alcune frattaglie, qualche flacone igienizzante seminato qua e là (“d’ora in avanti mani sempre disinfettate e mascherina nei luoghi affollati, anche se non c’è niente di pericoloso in giro”, come no…), l’adrenalina quando qualcuno ci starnazza a meno di mezzo metro, oppure, per dire della scuola, le convocazioni di alcuni organi collegiali e i ricevimenti dei genitori fatti a distanza. Punto. 

La montagna ha partorito il topolino, è proprio il caso di dirlo, e il “nulla sarà come prima” si è convertito nel “nulla sarà come dopo”, cioè nella sostanziale negazione di tutti gli atti smart che ci eravamo impegnati a concretizzare. Eppure, io, che invecchiando invece che incupire tendo a diventare non dico ottimista ma sempre meno pessimista, sento di avere qualche motivo di consolazione e speranza. In fondo quello che abbiamo visto in questi precari mesi di decorso post-pandemia non è molto dissimile da ciò che, con stupore, ravvediamo retrospettivamente quando andiamo ad analizzare le reazioni ai grandi traumi del passato. In questi casi ci accorgiamo presto che, dall’alto, l’umanità, che pure attraverso la sua capacità affabulatoria riesce a immaginarsi e raccontarsi apostasie, ravvedimenti, catarsi, poi si comporta esattamente come un formicaio dopo una pioggia, o dopo l’intervento violento di una mano umana: business as usual, non solo con riferimento alle attività economiche, ci potrebbe anche stare, ma a tutte le pratiche ordinarie della vita quotidiana.

E’ solo con gli anni, o con i decenni, che dopo aver agognato e realizzato un quasi meccanico ritorno alla realtà precedente, alla “normalità”, per metà comodo e per metà rassicurante, le comunità cominciano a riflettere su quello che è accaduto, e a cambiare il modo di pensare e di agire. Lo abbiamo visto con le guerre mondiali, tanto per usare un calibro comparativo pesante: all’indomani della Seconda, a ben vedere, quello che possiamo scorgere attraverso testimonianze, documenti e ricordi è uno strano ma comprensibile desiderio di ordinarietà e contemporaneamente di rimozione. 

Attoniti, ci chiediamo come sia stato possibile riprendere i cicli normali al cospetto di un’ecatombe simile, salvo poi riconoscere che pian piano il lascito di quella tremenda devastazione, materiale e spirituale, ha effettivamente scavato nel profondo, e alla lunga ha avuto modo di affiorare, cambiando le culture, modificando i modelli relazionali, dandoci anche – lo dico a maggior ragione in un periodo dell’anno che confina con le celebrazioni del 25 aprile – una consapevolezza tarda, meditata ma in fondo efficace sugli errori, le mistificazioni e gli interessi indicibili che avevano condotto all’immane conflitto. 

Ecco, adesso tutto quello che doveva cambiare è stato messo in non cale, e per questo, e perché siamo tutti artefici e compartecipi di questo oblio, ci dogliamo e un po’ ci vergogniamo. Poi, confido, con il tempo la lezione del Covid sarà non semplicemente vissuta, ma studiata e capita, e qualcosa, non dico tutto, sarà effettivamente differente non da come doveva essere “dopo”, ma da come era, ottusamente, prima.