Occhio al paradosso!, Micromega

Tempi bui, grami, per i razionalisti come me. Passiamo le giornate a tracciare linee ortogonali, a comporre quadri previsionali, a buttare giù diagrammi e assi cartesiani, il tutto nel tentativo di inchiodare la realtà ai dati di fatto e provare a farci rivelare il futuro prima che esso avvenga. Poi le cose accadono, eccome se accadono, ma mai una volta che corrispondano agli scenari predittivi che, premesse alla mano, avevamo vergato. 

Non che le cose siano mai andate diversamente, in sede storica. Per fare un esempio, piuttosto corposo, di paradossalità applicata alle vicende umane, e di processi che si sono concretizzati in forme e direzioni esattamente contrarie a quelle che si potevano preventivamente immaginare, basta pensare che nel 1914 la Grande Guerra, e più nel complesso il ciclo trentennale di conflitti che ha devastato il mondo fino al 1945, si sono andati a innestare sulla società più opulenta e all’apparenza progredita della storia europea, quella della Belle Époque, con tutte le sue (teoricamente) solide ragioni per anelare una pace duratura. Oppure si può richiamare la somma contraddizione del Secondo dopoguerra, a partire proprio dal 1945, quando una situazione di diffusa stabilità e lo scongiuramento del terzo conflitto mondiale sono stati garantiti dal fatto che i principali contendenti della geopolitica globale erano armati – di armi nucleari – fino ai denti (non a caso l’equilibrio del terrore, la deterrenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, per cui si riempivano gli arsenali ma contemporaneamente non si poteva nemmeno concepire una guerra che, in quanto guerra termonucleare, sarebbe stata esiziale, venne definito “pazzo”, grazie al geniale acronimo inglese “MAD”, Mutual Assured Destruction).

Uno ingenuo come me si immaginava però che la società dell’informatica, del digitale, dei big data sarebbe stata caratterizzata da un livello di imprevedibilità e di aleatorietà inferiore. Lo dico subito: nel mio caso, se si parla di prevedibilità e consequenzialità del domani, si tratta anche di un’esigenza fisiologica. Qualcuno, un giorno, mi deve aver spiegato che dipende dal segno zodiacale di afferenza, l’Ariete, per cui quelli astrologicamente simili a me avrebbero una pretesa sisifica di controllo della realtà e soprattutto del futuro che si traduce, da una parte, in un rapporto ossessivo con l’avvenire (“Cosa succederà? Perché? Non me lo potevate dire prima?”), e dall’altro lato in un perenne senso di frustrazione, giacché le cose poi non vanno mai come sarebbero dovute andare.

Tempi bui, grami, per i razionalisti come me. Passiamo le giornate a tracciare linee ortogonali, a comporre quadri previsionali, a buttare giù diagrammi e assi cartesiani, il tutto nel tentativo di inchiodare la realtà ai dati di fatto e provare a farci rivelare il futuro prima che esso avvenga. Poi le cose accadono, eccome se accadono, ma mai una volta che corrispondano agli scenari predittivi che, premesse alla mano, avevamo vergato. 

Non che le cose siano mai andate diversamente, in sede storica. Per fare un esempio, piuttosto corposo, di paradossalità applicata alle vicende umane, e di processi che si sono concretizzati in forme e direzioni esattamente contrarie a quelle che si potevano preventivamente immaginare, basta pensare che nel 1914 la Grande Guerra, e più nel complesso il ciclo trentennale di conflitti che ha devastato il mondo fino al 1945, si sono andati a innestare sulla società più opulenta e all’apparenza progredita della storia europea, quella della Belle Époque, con tutte le sue (teoricamente) solide ragioni per anelare una pace duratura. Oppure si può richiamare la somma contraddizione del Secondo dopoguerra, a partire proprio dal 1945, quando una situazione di diffusa stabilità e lo scongiuramento del terzo conflitto mondiale sono stati garantiti dal fatto che i principali contendenti della geopolitica globale erano armati – di armi nucleari – fino ai denti (non a caso l’equilibrio del terrore, la deterrenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, per cui si riempivano gli arsenali ma contemporaneamente non si poteva nemmeno concepire una guerra che, in quanto guerra termonucleare, sarebbe stata esiziale, venne definito “pazzo”, grazie al geniale acronimo inglese “MAD”, Mutual Assured Destruction).

Uno ingenuo come me si immaginava però che la società dell’informatica, del digitale, dei big data sarebbe stata caratterizzata da un livello di imprevedibilità e di aleatorietà inferiore. Lo dico subito: nel mio caso, se si parla di prevedibilità e consequenzialità del domani, si tratta anche di un’esigenza fisiologica. Qualcuno, un giorno, mi deve aver spiegato che dipende dal segno zodiacale di afferenza, l’Ariete, per cui quelli astrologicamente simili a me avrebbero una pretesa sisifica di controllo della realtà e soprattutto del futuro che si traduce, da una parte, in un rapporto ossessivo con l’avvenire (“Cosa succederà? Perché? Non me lo potevate dire prima?”), e dall’altro lato in un perenne senso di frustrazione, giacché le cose poi non vanno mai come sarebbero dovute andare.

Più di recente, causa Covid 19 (ma il fenomeno era ravvisabile anche in precedenza), ci siamo resi conto dell’inevitabilità di un altro paradosso della società digitale: il surplus di informazione e, potenzialmente, solo potenzialmente, di vaglio delle fonti garantito dalla rete, si è tradotto e continua a tradursi in un approccio non più ma meno competente alle informazioni, e nella reviviscenza di atteggiamenti dietrologici, quando non schiettamente superstiziosi. In altri termini: finché non lo potevo consultare, a Science o al New York Times gli prestavo fede, come no, adesso che se voglio posso leggerli on line, nero su bianco, non ci credo più. Lo stesso discorso vale, per dire, in merito ai dati su morbilità, mortalità e vaccinazioni Covid, cioè un tipo di informazione che è stato storicamente esoterico, gelosamente custodito dal potere e dalle istituzioni: una volta rese trasparenti, addirittura spiattellate in rete, le evidenze empiriche e numeriche della pandemia sono diventate improvvisamente non credibili. Meglio il tempo in cui erano nascoste, inaccessibili. Un po’ come quando i ladri entrano in casa, mettono tutto a soqquadro, razzolando e devastando, senza accorgersi del portafoglio collocato sulla credenza all’entrata. 

Il paradosso dei paradossi del nostro tempo digitale, per concludere la lamentazione con un po’ di amenità, è stato e continua a essere però quello relativo agli stili di comunicazione della rete. Anche qui ho la memoria non sufficientemente compromessa per ricordare che agli albori del web era tutto un fiorire di corsi di formazione sulla nuova, salvifica, comunicazione on line, essenziale, sintetica, anche graficamente impostata in modo da massimizzare l’efficacia ed efficienza. Mai più fronzoli, e barocchismi, si esultava. Ignoravamo, anime candide, che qualcuno avrebbe dovuto pagare i contenuti e le informazioni per il web. E che quel qualcuno sarebbero stati gli inserzionisti. Ovvero che per aumentare il numero degli inserzionisti, anche gli articoli su come preparare gli spaghetti aglio, olio e peperoncino avrebbero assunto la complessità e l’estensione del Capitale di Carlo Marx, libri uno, due e tre. Perché, elementare Watson, on line, dove lo spazio costa poco, praticamente nulla, più testo c’è, più pubblicità ci stanno. 

Ora, per fortuna, iniziamo ad abituarci all’idea che per avere informazioni di qualità dobbiamo pagare, e che molto spesso informazione di qualità è sinonimo di appropriatezza, concisione, brevità. E che, insomma, se non vogliamo i brodi allungati dei siti tutorial zeppi di advertising (“Ciao, sei qui perché vuoi capire quante tasse pagherai con la riforma fiscale? Siamo contenti che tu ci abbia scelto, prima di tutto rilassati”, e bla bla bla), dobbiamo mettere mano al portafogli. Però…pagare per avere meno…anche qui, almeno di primo acchito, un altro bel paradosso.