Occhio al trash

Partiamo subito da un atto di sincerità: una persona che è cresciuta nella Pianura padana, diciamo a partire dagli anni Sessanta in poi, non può sapere, a meno che non abbia fatto fughino dal suo mondo natio, che cos'è la Natura, oppure che cos'è un paesaggio propriamente agreste. Io mi ricordo abbastanza bene quando abbiamo letto per la prima volta, non so se era l'anno iniziale della scuola media o altro, Marcovaldo di Italo Calvino, e in particolare la novella satirica nella quale la tragicomica famigliola travolta dalla modernità consumistica fa legna segando le impalcature dei cartelloni pubblicitari: abituati a muoverci in una foresta di costruzioni artificiali dell’uomo, non capivamo bene dove stesse, nel racconto, lo scandalo.

Qualcuno di importante, che ha scritto un libro di urbanistica di un certo peso (non chiedetemi autore e titolo perché ormai la memoria ha chiuso i battenti), osservava qualche anno fa come l'esperienza visiva della Pianura padana, lungo la dorsale della Via Emilia, fosse (e sia) una roba abbastanza allucinante, diversa da qualsiasi altro scenario terreno: per chilometri e chilometri, lungo la direttrice che taglia orizzontalmente la valle del Po, non è mai dato, neanche per sbaglio, vedere un filare o una piantata (non dico un querceto) senza beccarsi, incluso nel prezzo, un casolare. Non c'è un campo, arato o incolto, senza, allo stesso tempo, una plancia pubblicitaria, o un semaforo.

A me questa cosa qua, devo dirlo, ha sempre suscitato un certo fascino, anche se capisco che la nostra schiuma periurbana, e in generale questa mancanza di discontinuità fra il dentro e fuori delle città e dei paesi, è indice di una distribuzione caotica, per certi aspetti, soprattutto oggi, irrazionale, delle presenze umane sul territorio, e ha comportato livelli di cementificazione e sfruttamento del suolo, anche nel forese, tristemente da primato. D’altra parte basta farsi un tour automobilistico lungo le strade di raccordo fra un centro urbano e l'altro della Via Emilia per avere contezza di quanto, ancora prima dell'esplosione delle stimolazioni digitali e della dominanza della cultura visuale dei nostri anni, noi padani, per chiamarci così, fossimo già abituati ad una fantasticheria stroboscopica di suggestioni visive: ovunque, ai quattro punti cardinali, sulla superficie solcata dal Grande Fiume e dai suoi affluenti, segnaletiche verticali e orizzontali, insegne di aziende, stazioni di servizio, e poi cartelli di entrata e uscita dalle frazioni, con obsolete bandierine dei gemellaggi, lampioni lampioni lampioni, un viadotto, altra stazione di servizio (con bar), autolavaggi nel nulla…vado avanti?

Ecco, tutta questa (lunga) premessa per dire che malgrado l'acquisita saturazione da artifici e manufatti umani nelle adiacenze dei centri abitati, negli ultimi anni, e non se ne sentiva il bisogno, il panorama visivo delle nostre terre di periferia si è ulteriormente arricchito, con la comparsa – pausa teatrale di sospensione – del rusco a grappoli. Perché non so quanti dei lettori lo abbiano notato, ma da un po' di tempo a questa parte, nelle strade di campagna intorno (anche) a Carpi hanno fatto la comparsa, quasi fossero i segni di antiche civiltà scomparse, sacchi di immondizia lasciati alla bell’e meglio sul ciglio delle carreggiate.

Sacchi multicolori, alcuni confezionati secondo i precetti funzionali al corretto conferimento e ritiro, altri completamente aperti o squarciati, sta di fatto che da un po’ è praticamente impossibile fare una percorrenza minima fuori mura senza incappare in queste presenze…Occhio, non parlo dei rifiuti sciolti che purtroppo abbiamo sempre incrociato nei posti in cui abitiamo, soprattutto a ridosso della campagna, le lavatrici in disuso, le mensole usurate e mollate sul bordo di una curva, le reti da materasso appena sostituite e mollate a un metro dalla banchina. Questa era (è) la monnezza da redditi crescenti, quella prodotta dalla obsolescenza e dal consumismo, vietato riparare, quando una cosa si rompe la buttiamo sul selciato. No, no, qui faccio riferimento proprio ai tradizionali sacchi del rusco, con i laccetti e magari anche le profumazioni. Che abbandonati così vanno ad impattare non solo sull'estetica del paesaggio, ma concretamente sulla qualità della spelacchiata natura che arranca ai lati delle strade, perché nove volte su dieci, poi, questi sacchi si rompono, e rilasciano infinite teorie di involucri, oggetti, scarti di ogni risma lungo il percorso.

Qui non sollevo il problema della performatività della raccolta differenziata delle nostre lande, anche perché, pur essendo ben lontani dalla perfezione, certo possiamo vantare rispetto a vicini e sfidanti risultati abbastanza appaganti. Voglio solo sottolineare come, vuoi per pigrizia, vuoi per convenienza economica, sempre comunque violando le leggi, un numero crescente di concittadini, o di avventori delle lande d’argine, ha deciso di lasciare segni importanti del proprio transito nelle zone di pertinenza delle strade. E’ un problema al quale la mentalità del differenziato, di cui sono entusiasta partecipe, ma notoriamente affetta da esagerato ottimismo antropologico, non aveva dato peso: tutti a preoccuparsi della corretta distinzione dei prodotti da smaltire, molti inquieti per il possibile uso indebito dei contenitori generali residui, esclusi dal porta a porta, ma, diciamoci la verità, il lancio olimpionico o l'abbandono selvaggio del rusco su strada sono andati e vanno oltre la soglia massima di inciviltà attesa.

Forse da questo malcostume nasceranno nuove tecnologie, nuove professioni, persino un nuovo campo metaforico (The Trash on the Road potrebbe essere sia un reality sia una discreta serie Netflix, magari esiste già e non lo so), presumibilmente – speriamo – nuove sensibilità e indignazioni; intanto, a completare il nostro lavoro di trasformazione in malebolge dantesche di quel poco di verde, spontaneo o pianificato, che prova a resistere intorno alle nostre vite, ci infliggiamo e ci becchiamo al contempo aree di smaltimento improvvisate e randomizzate. E viene alla mente lo scenario di certi film grotteschi o apocalittici, anche recenti, che terminano con l'esplosione delle discariche, e la disseminazione, a pioggia, del pattume, qui e là, dove lo portano il vento e le correnti, ma soprattutto dove l’ha indirizzato la ben più potente idiozia umana.