Occhio non vede, pancia non duole, Micromega

Dal punto di vista alimentare sono, tecnicamente parlando, un disastro. Mangio veloce, non rispetto gli orari, adoro consumare il pasto in piedi perché ho l’impressione di mantenere l’efficienza e di non essermi imborghesito, e mi fermo qui, senza tediare con l’evocazione di tutta un’altra serie di sconcezze comportamentali da manuale del perfetto imbecille. Soprattutto, e questo mi serve dirlo per introdurre l’argomento, da qualche anno a questa parte, complice non so che cosa, se l’invecchiamento o la saggezza, l’aumento della sensibilità o la premura per quella cosa impalpabile che chiamiamo salute, ho cominciato ad alternare periodi di foga carnivora degna di un cannibale con fasi sempre più lunghe e sempre più compiaciute di astinenza dal consumo di cibi animali.

Niente di regolare e geometrico, per l’amor di Dio: sono partito rifiutandomi il consumo di carni di cuccioli (che a pensarci bene è un compromesso etico meno vile e pilatesco di quanto si potrebbe pensare), poi ho tirato una riga su tutto quello che poteva odorare di maltrattamento animale, ma, per esempio, non sono mai riuscito, nemmeno nelle fasi più pitagoriche e naturiste, a rinunciare a uova e latticini.

Ondeggio, con sotterranea invidia per carnivori, o vegetariani, o vegani tutti d’un pezzo, tetragoni alle critiche e alle ironie della folla, baloccandomi in uno scetticismo sistematico applicato alle beate certezze altrui. Inutile negarlo, però: rispetto alle giovanili e gagliarde convinzioni sul diritto-dovere degli esseri umani di collocarsi in cima alla catena alimentare e di svolgere appieno la propria funzione di creature onnivore, negli ultimi anni ho sviluppato una crescente attenzione (ossessione?) per la sostenibilità, in tutte le sue diramazioni: sostenibilità ecologica, in primis, perché sappiamo bene quale sia il costo ambientale – pesante, pesantissimo – della voluttà e del gusto di cibarsi di volatili, suini e bovini, poi sostenibilità etica, perché la favola dell’inconsapevolezza animale – non so chi sono, a differenza dell’uomo, quindi non posso provare vero dolore, vera paura, vera sofferenza – è, appunto, una fola antropocentrica, autoassolutoria e discretamente paracula, che serve a relegare alla dimensione di cose, oggetti, degli esseri invece pienamente senzienti.

La componente che più mi colpisce, all’interno di questo percorso tortuoso e incerto, pieno di ripensamenti e ricadute, verso un’alimentazione meno impattante (e sanguinante), è la precarietà, immagino non solo mia, dei sentimenti rivolti agli animali da macello. In teoria i processi di alfabetizzazione e acculturazione dovrebbero favorire la capacità di astrazione, la tendenza a comprendere le cose non solo per esperienza diretta ma tramite argomentazione, e via discorrendo. Peccato che, mi vergogno a scriverlo, per me, se devo pranzare all’area di servizio, faccia ancora la differenza il fatto o meno di superare, durante il tragitto automobilistico, un camion per il trasporto di bestiame. Ridicolo, ma vero: se vedo una batteria di maiali, o di vitelli, destinati alla macellazione, beh, poi non ce la faccio, e all’autogrill ripiego su una parmigiana. Ovviamente vale anche il discorso inverso (occhio non vede, pancia non duole).

Non ci sono scuse, chiaro. Un bovino, nel diventare filetto o fiorentina, soffre, a prescindere dall’avere o non avere incrociato il mio sguardo lungo la strada. Ma il fatto che una persona come me (normalmente alfabetizzata e acculturata, capace di astrazione e argomentazione, e così via) subordini le sue scelte alimentari circostanziali anche al fatto di vedere o non vedere la materia prima vivente, per così dire, da cui proviene il cibo consumato, ecco, questo la dice lunga su come il processo (responsabile, encomiabile, sommamente umano e morale) di rimozione della morte – dell’uccisione – dell’animale sia il primo motore della perpetuazione di tendenze carnivore di massa. Detto in italiano corrente: se l’industria della macellazione e della lavorazione della carne fosse meno smart, e non sottraesse con tanta perizia e precisione la presenza dell’animale vivo al nostro sguardo e alla nostra coscienza (ad esempio confezionandolo in forme sempre più remote e avulse dalla forma originaria della bestia, presentandocelo cioè come hamburger, o salsiccia, o battuta), sicuro che faremmo tutti più fatica, altro che.

Il pensiero allora corre alle forme di civiltà differenti da quella industriale contemporanea, con le sue virtù (poco sangue, violenza lontano dalle nostre case, un colpo secco alla testa, non se n’è neanche accorto) ma anche le sue ipocrisie, per cui un bambino italiano del ventunesimo secolo non vedrà mai la morfologia del pollo vivo e vegeto dietro l’ampia e creativa fenomenologia di soluzioni gastronomiche (cosce, coscette, petto, svizzera, svizzerina) che glielo renderanno gioiosamente edibile. In tali forme di civiltà “differenti”, che sono poi quelle contadine dei nostri nonni, l’animale arrivava in tavola con tutte le sue parti, facilmente identificabili e, in termini di principio, ricomponibili. Altro che cotoletta impanata, o cordon bleu, o lavorazioni di alta cucina che alludono all’essere (già) vivente senza nominarlo. Lì erano lingue, e teste, e interiora, e zampe, il desco era un tavolo di anatomia, mangereccia ma anatomia.

Sicché, ancora più in là, lo stesso mio pensiero corre poi al fatto che per secoli gli uomini hanno mangiato gli animali che allevavano, quelli con cui convivevano (dicitura più letterale che metaforica, in molti casi), ai quali, magari, si erano anche, perché no, affezionati, e che dovevano ammazzare con le proprie mani. E allora, carnivoro o non carnivoro, mi convinco sempre di più della folle coerenza dell’animo umano: oggi non vedo, non vediamo, la sofferenza animale, e proprio per questo quando la percepiamo (per sbaglio, per curiosità, per masochismo) ci ritraiamo; ieri i nostri progenitori la vivevano tutti i giorni, per tutto il corso della vita, quella sofferenza, e proprio per questo la naturalizzavano, e inserivano nel circolo della ineluttabile necessità (in primis della propria sopravvivenza), facendosene una ragione.

Questa sera, in ogni caso, stracchino. Una mucca avrà comunque penato, per rendermelo possibile e mangiabile. Sto bene con me stesso, sì, ma non benissimo.