Omarino, tutta la vita

L'altro giorno mi si è spaccata la lavastoviglie. Doveva succedere, prima o poi. Faccio lavaggi senza posa (le mie bollette dell’acqua sono quelle di un piscicoltore), variando tempistiche e modalità per vedere cosa succede. Mezzo carico, carico pieno, lavaggio ecologico, lavaggio intensivo, pulitura atomica, eccetera: nessuna opzione mi è preclusa. L’elettrodomestico, quindi, se ne è andato, con discrezione, qualche rantolo e una segnalazione di malfunzionamento che suonava proprio, per la timidezza dell’allarme, più come una dichiarazione di resa che altro. Ho chiamato il tecnico, praticamente nel cuore della notte, perché posso fare a meno del riscaldamento o delle luci, ma il lavaggio automatico delle suppellettili per me è sacro. Mi fa sentire moderno e benestante.

Ebbene, durante la visita dell’esperto (che intuendo il mio stato d’animo, ansioso e partecipe, ha cominciato a esprimersi come un chirurgo, sospirando a intermittenza come a intendere che di speranze, per una macchina tanto provata dal tempo, ce n’erano pochine), durante la visita dell’esperto, dicevo, mi sono accorto di essere diventato adulto, o forse, per meglio dire, anzianotto.

Premetto che, di solito, quando mi viene un tecnico in casa – l’antennista piuttosto che il manutentore della caldaia – io tendo ad andare per il largo. È una questione di sopravvivenza e dignità. Perché di norma queste figure, soprattutto se si trovano al cospetto di nucleo familiare comprensivo anche di moglie e prole, si comportano da maschi alfa, umiliandomi a colpi di tecnicismi e gergalità, e – cosa insopportabile – dentro casa mia. D’altra parte le poche volte che, per cercare di salvare la faccia e fare l’uomo tutto di un pezzo, ho abbozzato domande od osservazioni intelligenti sono stato regolarmente preso a pesci in faccia. Un liceo classico e un percorso universitario umanistico, da par loro, non ti consentono di tener testa a un elettricista per più di mezzo minuto, questo è poco ma sicuro.

Ebbene, l’altro giorno, mentre l’addetto alla lavastoviglie metteva le mani nel ventre della gemebonda e mi guardava con l’espressione progressivamente listata a lutto, mi sono accorto di aver cambiato atteggiamento. Di voler stare lì, impassibile e imperturbabile, non solo per ovvia empatia nei confronti del (costoso ma comatoso) elettrodomestico, ma soprattutto per un sincero desiderio di osservazione e supervisione del lavoro del tecnico. Ho realizzato, insomma, di essere entrato – o di essere sulla buona strada per entrare – nel mondo, parallelo e appagante, degli omarini. Quelli – ma forse la precisazione è pleonastica – che controllano i cantieri, commentano i lavori in corso, interagiscono con gli sfalci, insomma sindacano su ogni attività di rilevanza e utilità pubblica, mantenendo la nota, proverbiale, postura, fatta di lieve inclinazione in avanti del busto, espressione severa e saputella, mani intrecciate, come se fossero un timone, all’altezza del fondoschiena.

Quella di omarino è dicitura entrata solo di recente nel vocabolario di uso corrente (credo che qualcuno, di recente, abbia dedicato al tema un’intera pubblicazione a stampa) ma nella sostanza la figura dell’adulto beneficiario di pensione (retributiva) che inganna le giornate perscrutando e giudicando l’operato altrui nei luoghi di massima aggregazione sociale (piazze, strade principali, eccetera) è tutto fuorché nuova. Nasce qualche decennio fa da una positiva transizione demografica (che aumenta a dismisura il numero degli over sessantacinque in circolazione e in buone condizioni psicofisiche) e da una meno feconda contrapposizione fra le competenze specialistiche degli addetti, di solito giovani esuberanti e con forte propensione all’autonomia, e gli pseudo-saperi tradizionali degli anziani, che tendono a vedere nella modernità un ammasso insignificante e gratuitamente complicato di procedure, tecniche, mezzi.

L’omarino, va riconosciuto, è nell’Italia (e anche nella Carpi) di oggi un salutare surrogato. Sostituisce a tutti gli effetti un’opinione pubblica distratta e impolitica, alla quale – questa è la mia impressione – potrebbero smontare il Colosseo da sotto il naso senza reazione e protesta alcuna. In secondo luogo egli è il vero garante, in ambito economico, dell’attuazione dei principi di efficacia ed efficienza, soprattutto se collegati allo svolgimento di lavori o attività di matrice pubblica. La magistratura là si può anche gabbare, ma un intervento di pavimentazione, per dire, privo dei crismi realizzativi di legge non sfugge all’occhiuta vigilanza ventiquattrosette dei team di omarini che prestano servizio nei piccoli e medi comuni soprattutto del centro-nord Italia.

Ecco, io l’altro giorno, al cinquantesimo minuto di appostamento da avvoltoio alle spalle del tecnico della lavastoviglie, mi sono reso conto, come dire, del processo di omarinizzazione che inizia a vedermi protagonista. E lo dico senza ritrosie: la cosa mi fa felice. Uno perché da qui alla pensione e ai sessantacinque anni (soglia anagrafica di riferimento degli omarini) potrò completare con calma la mia trasformazione. Due perché vuol dire che mi sto calando nella logica di attuare, e non solo subire, la rottura di balle (“fai così”, “vai di là”, “lascia stare che non sei capace”) ai danni del prossimo, che come sanno tutti i cultori di scienze morali è la precondizione principale per vivere un’esistenza serena e limitare la possibilità che gli altri siano più felici di te.

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