Pronto, chi guida?

Bei tempi, quelli – neppure troppo remoti –  nei quali per noi forzati dell’automobile e dei  duemila chilometri al mese circa esistevano  sostanzialmente due categorie di mezzi in circolazione  sulle strade: i veicoli lenti e i veicoli veloci.  Punto. Il mondo era davvero molto più semplice,  anche perché da una prima, sbrigativa, occhiata era  facile, con tassi di imprecisione bassissimi, classificare  le macchine precedenti o sopravvenienti.  Fino al crepuscolo del secolo scorso (diciamo così,  per darci un tono solenne) c’erano alcune targhe  provinciali (si dice il peccato, non il peccatore)  che dalle nostre parti erano sinonimo di “Pericolo!  Mezzo a trazione animale!”, anche se si trattava di  una utilitaria o di una berlina. Se poi il reggiano di  turno (ahi, mi è scappato...) faceva tanto ad avere  l’aria di venire dal contado (autista con il copricapo  indossato anche dentro l’abitacolo, presenza  di tracce di fango sui pneumatici e sui paraurti,  eccetera) si riponeva ogni speranza di rincasare  per la cena e ci si piazzava seraficamente in scia ai  trenta all’ora.  Viceversa, secondo il ben noto presupposto  aristotelico per cui ogni potenza, prima o poi, e in  quanto tale, deve divenire atto, nell’antico regime  automobilistico gli automezzi con una certa potenza  non potevano non andare forte. Era una legge di  natura, conosciuta, accettata e condivisa da tutti.  E poiché l’invidia per i ricchi già esisteva, ma era  mitigata da una confusa eppure feconda nozione di  mobilità sociale (“un giorno anche io potrò...”), ogniqualvolta  nel retrovisore inquadravi una Porsche  in atteggiamento aggressivo, da imminente speronamento,  eri tu stesso a riconoscere la legge del più  forte e il diritto naturale del proprietario a mollare  la briglia dei cavalli del motore, semplicemente  scansandoti.  

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